Il giudizio di Robert Musil sull'alternativa centralismo/federalismo

Stante la loro evidente attualità, ripropongo questi due articoli, pubblicati una prima volta da Musil quando era direttore del giornale militare Soldaten-Zeitung, e tradotti settant'anni dopo da Reverdito Editore nel volume LA GUERRA PARALLELA[1] (che raccoglie l’attività pubblicistica del grande scrittore nella sua qualità di ufficiale austro-ungarico durante la prima guerra mondiale). La loro riproposizione, da parte mia, costituisce un proseguimento della riflessione avviata con i tre post dedicati a Pellegrino Rossi[2]. I grassetti nel testo sono miei.

ROBERT MUSIL: CENTRALISMO E FEDERALISMO[3] (1917)

Appena ripreso quest’autunno il dibattito sul ripristino della situazione costituzionale in Austria, sono riapparsi agli occhi dei lettori di quotidiani anche le parole sin troppo note dei lunghi anni della disputa politica interna: centralismo, federalismo, autonomia. Persino qualche erudito, ma anche qualche politico di professione, fa ricorso a tali espressioni senza avere un’idea ben chiara – e lo si nota subito – del loro significato, mentre qualcun altro che pretende di pensare autonomamente le usa addirittura come slogans orecchiati da dirigenti o da programmi politici, recitandole a mo’ di litania, senza riflettere razionalmente sul significato che i problemi ad esse collegati rivestono per il nostro Stato. Tale significato coinvolge così a fondo gli interessi vitali dello Stato, che da simili superficialità del pensiero politico possono derivare, per la comunità, le conseguenze più gravi. Perciò è quanto mai opportuno che ciascuno, specie il cittadino avente diritto al voto, il quale, a Dio piacendo, sarà tra poco nuovamente chiamato a partecipare alla vita politica, faccia una piccola riflessione sull’interrogativo «centralismo o federalismo?».

Centralismo sta a significare il sistema che prevede l’unione di tutte le funzioni statali in un solo organo centrale, federalismo vuol dire genericamente raggruppamento di Stati autonomi in una federazione in cui un buon numero di funzioni statali viene rimesso dai singoli membri alle comuni autorità federali. Di solito, una struttura federalistica nasce dall’unione di singoli Stati precedentemente del tutto indipendenti; più raro il caso inverso dello smembramento in singoli Stati federati di una precedente unità centralistica. Per unificazione sono sorti il Reich tedesco, la Confederazione elvetica, la Repubblica degli Stati Uniti d’America, l’Unione Sudafricana; per scioglimento di una unità precedente si formarono invece dall’Impero brasiliano gli Stati Uniti del Brasile. Anche in Messico e in altre repubbliche sudamericane si tende a una costituzione federale. In Europa un caso del genere non si presenta; c’era soltanto, prima della guerra, l’opinione diffusa che l’Austria-Ungheria e la Russia fossero in procinto di dividersi in singoli Stati federali, con residui più o meno ampi di strutture in comune.

Individuare i vantaggi e gli svantaggi di ambedue le forme statali è abbastanza facile, e proprio per questa ragione ambedue trovano accaniti sostenitori. Della superiorità della costituzione federalistica il federalista ha per lo più un’idea – forse dovuta al caso perché nata sull’onda delle sue prime impressioni – così unilateralmente entusiastica, che non gli interessa proprio esaminare più a fondo le ragioni a favore del centralismo; è assolutamente convinto che un benpensante possa ragionare solo in senso federalistico, in quanto i vantaggi di questo sistema sono chiari e saltano subito agli occhi. Ma anche il centralista considera altrettanto indiscutibile la bontà della sua causa, e perciò si verifica quel che succede nella maggior parte dei contrasti: le divergenze d’opinione portano a una lacerazione, mentre in fondo i due contendenti desiderano, in buona fede, il meglio per la comunità.

La situazione di fatto, naturalmente, è quella che il poeta sintetizza nel motto: non tutti i piedi stanno bene in una scarpa. Il federalismo concede a un singolo membro, nell’ambito della collettività, una maggiore libertà, e insieme gli offre i vantaggi della collettività stessa: una autorevolezza verso l’esterno acquisita grazie all’unione delle forze e, fino a un certo grado, anche il sostegno reciproco all’interno. Il centralismo raccoglie le forze con maggiore energia e si trova perciò in condizione di affermare in modo più incisivo l’autorità e il peso dello Stato verso l’esterno, e di realizzare all’interno senza ostacoli un equilibrio di tutte le forze e di tutti i mezzi di cui lo Stato dispone. Il rapporto si configura pertanto come segue: quanto più al cittadino sta a cuore la crescita della collettività, tanto più sarà disposto almeno a considerare se le pretese dei singoli membri non ostacolino tale crescita, tanto più aderirà alle esigenze del centralismo. E inversamente: quanto più il suo attaccamento e le sue premure sono rivolti alla piccola patria cui egli appartiene, e quanto più indifferente gli è l’insieme, tanto più distaccato sarà il suo atteggiamento nei confronti di tutte le tendenze centralistiche. Certamente esiste pure un punto di vista secondo il quale con la prosperità delle singole parti è garantita al massimo anche quella della globalità, e ci sono dei campi in cui detto punto di vista si è affermato in modo manifesto, ad esempio il campo dell’arte e delle culture locali, ma per quanto onesta e ben intenzionata sia questa opinione, essa non giustifica il rifiuto di prendere in considerazione le superiori esigenze della collettività. Ci sono necessità che non possono essere soddisfatte con la sola collaborazione delle parti, ma che anzi debbono venire affrontate e risolte da una effettiva direzione unitaria, come ad esempio la politica estera, la difesa del Paese, il regolamento delle relazioni commerciali, e via discorrendo. Che tali problemi riguardino la collettività quale corpo unico è chiaro in via di massima anche ai federalisti, solo che essi ammettono quelle esigenze quasi vi fossero costretti e con tutte le riserve possibili. Qui sussistono appunto contrasti di opinioni che traggono origine da impressioni, aspirazioni o addirittura interessi, e che ben difficilmente potranno essere eliminati ricorrendo a confutazioni teoriche.

Solo uno sguardo alla realtà circostante o agli ammaestramenti della storia può rendere capaci di giudizio autonomo sulla bontà o non bontà del centralismo o del federalismo in un determinato caso coloro che sono senz’altro ancora convertibili o coloro che stanno cercando di orientarsi in questi problemi. Chi non si è ancora decisamente e unilateralmente buttato anima e corpo da una parte o dall’altra, si renderà conto, dopo qualche riflessione sulle esperienze storiche fatte con ciascuno dei due sistemi, che la forma di Stato in se stessa non significa assolutamente nulla, dato che tanto il centralismo quanto il federalismo hanno già fornito ottimi risultati politici, ma che la domanda da porsi è soprattutto questa: per quale forma di Stato sussistono, nel caso in esame, i presupposti? Le parti singole presentano una struttura tale da adattarsi tranquillamente alle esigenze che competono alla collettività, rendendo in tal modo possibile una presenza dello Stato verso l’esterno che risponda ai suoi diritti e alla sua posizione? Oppure tale presenza, sempre nel caso in esame, è da attendersi soltanto quando il potere centrale abbia totalmente in pugno lo Stato e possa disporre di tutte le sue energie senza condizionamenti da parte di aspirazioni particolaristiche locali? È a seconda della risposta a questa domanda che si dovrà decidere se per lo Stato in questione il sistema migliore sia il centralismo o il federalismo.

Se le singole parti, di propria spontanea volontà, perché vi si sentono portate, per comunanza di stirpe o per esperienza storica, tendono ad una unione che tuteli nel modo migliore gli interessi comuni, allora conviene senz’altro il federalismo. Ma se fra le singole parti ci sono aspirazioni tese alla piena indipendenza o all’unione con altri, allora solo un forte centralismo è in grado di conservare la coesione comunitaria.

In quest’ottica il vero politico deve giudicare, a meno che non abbia la vista annebbiata da pregiudizi innati o acquisiti, o non sia affetto da pigrizia mentale. Proprio di fronte al dilemma che oggi ci assilla, in quale forma di Stato debba riconoscersi un austriaco che porti nel cuore come supremo ideale il bene della Patria, proprio in questo dilemma che oggi si ripropone forse per un’estrema decisione, non dovrebbero esserci –isti di nessun genere, né federalisti né centralisti, incaponiti in opinioni aprioristiche, ma solo patrioti leali, capaci e disposti a giudicare non da punti di vista settari, ma solo dalla superiore prospettiva della collettività. Se questi patrioti saranno la maggioranza nel Paese, possiamo essere certi che la giusta decisione verrà trovata.

ROBERT MUSIL: FEDERALISMO O CENTRALISMO[4]

Concludendo l’articolo di fondo dell’ultimo numero, si osservava che chiunque mediti sulla domanda se il sistema più adatto per le condizioni dell’Austria sia il centralismo o il federalismo, dovrebbe probabilmente giungere alla medesima conclusione e al medesimo giudizio. Vogliamo sperare che quel richiamo si sia dimostrato appropriato, e che i nostri lettori, riflettendo sul problema, abbiano già intuito quanto verrà esposto nelle argomentazioni che seguiranno: cioè che per l’Austria può valere solo il centralismo.

A questa convinzione portà già l’esame del presupposto fondamentale enunciato nell’ultimo articolo circa l’ammissibilità del federalismo: deve sussistere una chiara e forte tendenza all’azione comune delle singole parti affinché il sistema federativo sia possibile. Là dove le singole parti tendono a divergere, la forza di coesione della costituzione federativa è troppo debole per sostenere lo Stato. Il vincolo si allenta sempre più e alla fine rimane soltanto la forma, che deve forse la propria consistenza più che altro alle condizioni esterne. Ma in caso di effettive complicazioni esterne la coesione si fa incerta. Perciò, quando un’entità politica viene a trovarsi in una situazione di pericolo, in mezzo a vicini che hanno delle mire sul territorio dello Stato, e quando qualcuna delle sue componenti non si sente incondizionatamente legata al tutto, quell’entità farebbe veramente una politica suicida se indebolisse se stessa mediante una costituzione federalistica.

In queste considerazioni sull’Austria guardiamo sempre allo Stato quale esso si presenterà dopo l’attuazione dell’ordinamento speciale per la Galizia, lo Stato dei territori occidentali della Corona che nel 1866 facevano tutti parte (meno l’Istria) della Lega Tedesca. In questo Stato sono chiaramente individuabili tre gruppi di paesi dei quali si può affermare che recano in sé non già l’impulso a unirsi tra loro, ma, anzi, quello di separarsi. Il gruppo della regione dei Sudeti vorrebbe stare per proprio conto, il gruppo dalla Drava in giù, idem. Al centro rimangono poi le regioni alpine in uno scomodo isolamento, dato che come gruppo a parte sarebbero tagliate fuori dal mare. Aspirazioni di questo tipo sono in sé comprensibili, e non hanno nulla a che vedere con l’alto tradimento; non fanno altro che porre la causa di una parte al di sopra della causa comune, senza considerare a sufficienza se con un simile assetto l’Austria sarebbe ancora un vero Stato e potrebbe farsi valere efficacemente nei confronti dell’Ungheria o degli Stati confinanti. Chi ritenga valide queste considerazioni, non può avere dubbi sul fatto che lo spezzettamento in singoli gruppi comporterebbe necessariamente per lo Stato austriaco la perdita di ogni importanza all’interno della Monarchia e di fronte all’estero. Le singole parti verrebbero poi ad assumere l’aspetto di piccole appendici attorno all’Ungheria, prive di una organizzazione adeguata per una forte presenza comune.

La Costituzione vigente ha già fornito spazio, con i territori della Corona semi-autonomi, a movimenti federalistici che miravano all’assetto speciale della parte settentrionale e di quella meridionale. È chiaro che un ampliamento delle autonomie regionali porterebbe necessariamente a un notevole rafforzamento di quei movimenti, e avrebbe come inevitabile conseguenza la realizzazione dei loro obbiettivi. La stessa cosa si verificherebbe applicando l’autonomia ampliata alle nazioni anziché ai territori della Corona. In tal caso, le singole collettività nazionali si ritirerebbero troppo in se stesse, senza più costituire la necessaria comunanza con le altre nazioni, di modo che andrebbe totalmente perduta la coscienza del riconoscersi appartenenti ad una medesima entità. Ma è proprio questa coscienza la necessità vitale del nostro Stato.

È ormai una penosa realtà che le sei nazioni in seno all’Austria ristretta, e particolarmente i popoli più numerosi, Tedeschi, Cèchi e Sloveni, non hanno ancora appreso, dopo 400 anni, a convivere in modo adeguato. Ma se lo Stato vuole sussistere, dobbiamo imparare a farlo. E lo Stato deve vivere, è un’esigenza mitteleuropea. Né in guerra si può andare a chiedere ad ogni singolo popolo e ad ogni singolo paese che cosa esso desideri per sé, perché legge suprema è il bene generale. Ma questo bene deve essere garantito già a priori dagli assetti della pace, già in tempo di pace lo Stato deve assumere la forma più opportuna per la propria capacità di difesa. Uno o due decenni di efficace educazione allo Stato centralizzato potranno sicuramente far capire a tutti i popoli dell’Austria che essi, con le loro aspirazioni separatiste, hanno seguito fino ad oggi impulsi devianti. Se noi conserveremo il vero Stato, allora si rivelerà anche la piena verità di quei versi che a qualcuno sono apparsi discutibili:

L’Austriaco ha una Patria,
la ama e di amarla ha ben motivo.


[1] Trento, 1987.
[2] La malaunità: l’uccisione di Pellegrino Rossi nella cronaca di Giuseppe Spada: http://andreacarancini.blogspot.com/2011/03/la-malaunita-lomicidio-di-pellegrino.html ; Pellegrino Rossi: il riformatore illuminato che Pio IX scelse come Primo Ministro: http://andreacarancini.blogspot.com/2011/03/pellegrino-rossi-il-riformatore.html ; Pellegrino Rossi: quel federalismo così inviso ai massoni: http://andreacarancini.blogspot.com/2011/03/pellegrino-rossi-quel-federalismo-cosi.html .
[3] Zentralismus und Föderalismus, in Soldaten-Zeitung, n. 31 (7 gennaio 1917), pp. 2-3. Ripubblicato in LA GUERRA PARALLELA, pp. 82-86. Traduzione di Claudio Groff.
[4] Föderalismus oder Zentralismus, in Soldaten-Zeitung, n°32 (14 gennaio 1917), p. 2. Ripubblicato in LA GUERRA PARALLELA, pp. 87-90.