La malaunità: l'omicidio di Pellegrino Rossi nella cronaca di Giuseppe Spada

Pellegrino Rossi
Oggi, 17 marzo 2011, vorrei commemorare anch’io, nello spirito di questo blog, la (mala) unità d’Italia. Il modo migliore che conosco è quello di ricordare la figura di Pellegrino Rossi (il premier, nel 1848, dello Stato Pontificio) e il suo brutale omicidio. Per quanto infatti il cosiddetto “Risorgimento” e l’"unità” che ne è seguita siano intrisi del sangue degli innocenti (non a caso un recente libro di Giordano Bruno Guerri si intitola appunto IL SANGUE DEL SUD – Antistoria del Risorgimento e del brigantaggio[1]) il singolo omicidio più grave dell’epoca rimane forse proprio quello di Pellegrino Rossi. Perché si volle uccidere, con la persona, anche il progetto politico che rappresentava: quello di un genuino federalismo. Dico “genuino” perché, a differenza dei disegni “redentori” dei cosiddetti patrioti, avrebbe salvaguardato la sovranità nazionale dalle indebite influenze straniere, a cominciare da quelle dell’imperialismo britannico, e per questo – offerto allora come ramoscello d’ulivo dal papa e da re Ferdinando II alla monarchia sabauda – venne non solo respinto ma soffocato nel sangue di uno dei suoi più autorevoli, anche se misconosciuti, esponenti. Le pagine seguenti sono tratte dalla fonte più autorevole dell’epoca: la STORIA DELLA RIVOLUZIONE DI ROMA E DELLA RESTAURAZIONE DEL GOVERNO PONTIFICIO, DAL 1 GIUGNO 1846 AL 15 LUGLIO 1849, del Commendatore Giuseppe Spada[2]. Da notare, tra gli altri, il riferimento (p. 507) alla strana assenza dei carabinieri il giorno dell’attentato: “Parve insomma che l’arma dei carabinieri in quel giorno non esistesse”. Nel 1848, lo Stato italiano ancora non c’era ma, a quanto pare, il Doppio Stato c’era già.     

Essendoci diffusi fin qui nell’enumerare i sintomi, e designare qualcuno degli elementi che prepararono la catastrofe del Rossi, è tempo ormai che parliamo della cospirazione ordita contro di lui pel giorno 15, destinato all’apertura dei Consigli legislativi. Il governo per la verità era già in sugli avvisi e conosceva il giorno destinato per tanto misfatto, in grazia delle informazioni avutene dalla vicina Toscana.

Fin dal giorno 14 però la eruzione del vulcano mise fuori le prime fiamme, perché in quel giorno quantunque gli associati tutti al Don Pirlone[3] ricevesser la loro solita distribuzione, che in quel giorno portava una vignetta in cui vedevasi il re Carlo Alberto che insieme al Gioberti coll’aiuto di un telescopio, scandagliavano la opportunità della guerra simboleggiata da una tartaruga; pur tuttavia agli iniziati ne’ misteri tenebrosi di quell’epoca infausta distribuissene anche un’altra esprimente il conte Rossi (ritratto perfetto quanto alla figura e alla fisonomia) vestito alla Don Quichotte, che siede sopra un sasso accanto al suo fido Sancho Pancha, ch’era l’avvocato Ciccognani. Portano entrambi un cartello, in uno dei quali vi è la cifra 300, nell’altro il 500, allusivi al quantitativo degli scudi romani che ritraeva il Rossi dai portafogli ministeriali: tolti però i zeri e fatta la moltiplica, alcuni credettero che il n.15 che ne risultava non fosse casuale, ma fatto a disegno, per esprimer cioè il numero fatale del giorno destinato alla perpetrazione del misfatto.

Sotto la vignetta vi era la seguente iscrizione:
« Qui studet optatam cursu contigere metam
» Multa tulit fecitque puer, sudavit et alsit. »

Nel fondo della scena poi vedevansi chiaramente dei papaveri, che sono il simbolo del sonno eterno o della morte. Parve dunque che colla diffusione parziale di questa stampa volesse preludersi alla esecuzione del delitto, e prevenirne gli iniziati al segreto. Noi facciamo menzione di ciò per nulla tacere di quello che si è pensato, o si è scritto; ma ripetiamo che il numero 15, risultanza naturale dei due numeri moltiplicati l’un per l’altro, fu forse una combinazione e nulla più.

Giunto il giorno 15 si osservò fin dal mattino un insolito movimento ed un affaccendarsi di molti individui con faccie torve. Ciò indicava che qualche cosa di tristo andavasi preparando.

La scala del palazzo della Cancelleria dove fu ucciso Pellegrino Rossi 
Trattandosi di un giorno così solenne, stante la riapertura dei due Consigli legislativi, non aveva mancato il Rossi di dare le opportune disposizioni pei carabinieri al colonnello Calderari, non tanto a tutela della sua persona, quanto per assicurare l’ordine pubblico. Ricusò costantemente una scorta, e non pensò a ordinare che almeno un distaccamento di carabinieri gli facesse ala quando sarebbe sceso dal legno, per salir la scala del palazzo della Cancelleria. Carabinieri non vidersi; e se ve ne fu taluno qua e là disseminato, non si conobbe affatto che prendesser parte attiva, neppure per il mantenimento dell’ordine. Parve insomma che l’arma dei carabinieri in quel giorno non esistesse.

Fu avvertito il Rossi del pericolo che sovrastavagli dalla duchessa di Rignano, con apposito biglietto; ne fu avvertito pure da un monsignor Morini; e vuolsi ancora che ricevesse altro biglietto dalla contessa di Menou, nel quale gli si diceva: « guardatevi dallo andare al palazzo legislativo, la morte vi ci attende ». Si disse comunemente che rispondesse: « la causa del papa è la causa di Dio ».

Rammenteranno i nostri lettori aver noi già detto che ripartita la prima legione per le Romagne il giorno 23 settembre, una porzione (centoquaranta circa) rimase in Roma sotto il comando di un Luigi Grandoni, componendo un battaglione separato che fu detto dei reduci. Il Grandoni figurò poi nel processo come uno dei capi, ed i militi sotto i suoi ordini come i complici ed i cospiratori principali per consumare il delitto.

Di questi pertanto una porzione composta di cinquanta o sessanta individui circa, era sulla piazza della Cancelleria con una loro tunichetta particolare, chiamata volgarmente la panuntella. Costoro secondo le deposizioni processuali facevan delle riunioni sotto la direzione del Grandoni nel teatro Capranica, e vuòlsi pure che colà si facesse l’esperimento sopra un cadavere per addestrarsi nella meditata uccisione del Rossi, affinché il colpo non andasse fallito.

Pietro Sterbini, uno degli assassini di Pellegrino Rossi
Lo Sterbini e il Canino mostraronsi operosissimi in quella occasione, e figuravan fra i capi del complotto. L’antagonismo che aveva sempre esistito fra loro sparì: parve, e comunemente si disse, che sotto gli auspici di un comune delitto gli animi loro si fosser riconciliati.

Fra gli orditori principali poi della trama esecranda figurarono quei due rifugiati napolitani Vincenzo Carbonelli e Gennaro Bomba, che abbiamo nominato più sopra e che il Rossi mandava in esilio il giorno 13.

Lo stesso Leopardi, che fu ministro costituzionale di Napoli presso Carlo Alberto, ed uno dei capi del movimento italiano, pone il Carbonelli alla testa dei liberali più avventati.

Vi figurò ancora un tal Ruggero Colonnello rifugiato napolitano, e complice coll’avvocato Galletti nella cospirazione del 1844.

Il Galletti stesso poi era designato siccome uno degli iniziati nel segreto. Figurarono inoltre fra i capi due fratelli Falciotti di Palestrina, ed in loro casa essa tennersi delle riunioni preparatorie. Così almeno risulta dal processo.

Ciceruacchio
Fra i Romani ve ne furon pur troppo alcuni, e fra questi, Ciceruacchio padre e figlio. Il figlio fu quello al quale lord Minto consegnò i versi laudatori della sua frigida Musa, che poi il d’Azeglio voltò nella italica favella. Riandandovi ora col pensiero, non si può non esser compresi da rossore per entrambi; ma finalmente nè lord Minto rappresentava la nobilissima nazione britannica, nè il d’Azeglio la non men nobile italiana. Presero dei granciporri ambedue, e non furon soli!...Poveri noi, se i fatti isolati di pochi individui tornar dovessero in onta delle rispettive nazioni. Degli altri capi-popolo, o compartecipi di cosiffatte iniquità ci rifugge l’animo di tenere più lungo proposito. Chi si sente la voglia di conoscerne i nomi legga il processo. È cosa avverata però che se vi furon fra i complici alcuni Romani, i capi e gli istigatori principali furono il Carbonelli, il Bomba, il Colonnello, i fratelli Falciotti, l’avvocato Galletti, il Canino, e lo Sterbini, che non erano Romani.

Ritornando al Rossi egli è innegabile che ad onta degli avvisi ricevuti, volle coraggiosamente, o imprudentemente, affrontare il pericolo, fece visita al papa e se ne congedò. Ahimè! Fu quella l’ultima volta! Ascende nel legno, si reca a prendere con sé il cavalier Pietro Righetti, ed arriva sulla piazza della Cancelleria circa un’ora dopo il mezzogiorno. Ma qual differenza! Al giungervi dello Sterbini poco prima, applausi immensi! All’apparir del Rossi sibili e fischi! Discende dal cocchio, alcuni ex legionari se gli fanno d’appresso, e formano due ali compatte a piedi della scala: sente percuotersi in una gamba, si volta, ed una mano omicida vibra risolutamente un colpo di pugnale sul suo collo e fende la carotide.

Ferito appena, sente mancarsi. Lo sorregge il Righetti, e fa della sua persona sostegno e riparo allo spirante ministro, immerso nell’angoscia, intriso nel proprio sangue. Quindi è posto sopra una sedia e trasportato negli appartamenti del cardinal Gazzoli, assistendolo sempre il Righetti, un domestico del Rossi e gli addetti alla famiglia del cardinale. Sopraggiunge il dottor Pantaleoni, membro del Consiglio dei deputati, e cerca di assistere il moribondo. Fa ricercare un sacerdote: questi viene, ma il moribondo era spirato.

Alle grida che perfin nella sala si udirono, prima che il ministro spirasse, allo sbigottimento di alcuni che entravano, al richiedersi in fretta di medici e di chirurghi, al vedere i professori Fabbri, Fusconi e Pantaleoni uscire immantinente dalla sala, si conturbò l’assemblea; finchè s’intese esser ferito il Rossi.

Fosse però timore, fosse mal intesa imperturbabilità, fosse prudenza o, come la chiamarono, calma imponente, il presidente senza sgomentarsi ordinò che si leggesse il processo verbale della seduta precedente. Il segretario volle incominciarne la lettura; ma niuno badandovi, e tutti pensando a mettersi in salvo, rimase vuota la sala. E tu orrore del delitto, ove stavi, che non facesti sentir la tremenda tua voce? Sì, una voce sentissi e tristamente sentissi, che diceva: « A che tanto affanno? È forse il re di Roma? ». E questa voce era quella del Canino.

Carlo Luciano Bonaparte, principe di Canino
Il Farini racconta il fatto, ma non nomina la persona. Essa era ancora fra i viventi. Nel ristretto del processo mai non è nominata, se non come il personaggio distinto, il nobile contumace. E ciò per prudenziali e delicati riguardi. Ora il Canino non è più. Esistono è vero i suoi figli, esempi tutti di onore e di bontà, e modelli di virtù religiose e civili, ma la storia reclama che si dica il vero, e noi a malincuore dovemmo dirlo.

La catastrofe tremenda che si compiè quel giorno al palazzo della Cancelleria mise la costernazione e il terrore nella città. Gli onesti e i pacifici, i quali (checchè si dica e si scriva in contrario) son sempre il maggior numero, ne rimasero atterriti: sì che tu li vedevi cupi e taciturni aggirarsi per la città quasi ti dicessero che se l’oggi era male, il domani preannunziava il peggio. T’incontravi pure con individui di truce aspetto, i cui lineamenti apparivan contratti per gioia feroce, e quale vantavasi di aver cooperato, quale di avere incitato gli altri all’azione gloriosa, che parificava la Roma dei papi a quella dei Bruti e degli Scevola. E come gli antichi gloriavansi di avere spento in Cesare il tiranno di Roma, glorificavansi i Bruti moderni di avere spento in Rossi il nemico del popolo romano.

Compresi gli animi da cupo terrore, non già nelle vie e nei pubblici ritrovi disfogavano il loro cordoglio, o manifestavano i lor timori, ma appena, appena fra le domestiche pareti.

Il papa fu colpito come da fulmine al triste annunzio. Deserto il Quirinale, perché pochi o niuno in tanto scompiglio, o sotto l’impero del timore, furono a tributare al sovrano atti d’ossequio o proteste di sostegno.

Si rivolse allora il Santo Padre al Minghetti, al Montanari, al Pasolini, affinchè vedesser di reggere temporaneamente la cosa pubblica. Cercassero se possibil fosse, di costituire un nuovo ministero. – Essi però non credettero di sobbarcarsi a sostenere tanto peso, e così Roma restò una nave senza timone.

Non reggendo l’animo al duca di Rignano amico intimo del Rossi di sostenere il comando della guardia cittadina, venne esso conferito all’onorato giovane Giuseppe Gallieno; ed il Rignano, temendo anche pe’ suoi giorni, sen fuggì da Roma all’istante.

Si ricorse per notizie e provvedimenti al colonnello Calderari, ma i suoi detti tronchi ed ambigui, il suo precedere incerto, peritante e misterioso, eccitaron gravi sospetti, se pur non vogliasi di complicità, di colpevole o insecusabile inettezza per fermo. Pubblicò il Calderari un opuscolo in difesa del proprio operato.

Meno pertanto che alla civica preposto un Gallieno, alla linea un Lentulus, che fungeva come pro-ministro delle armi, Roma non ebbe né governo né autorità per guidarla.

Restava però il circolo popolare. E la sera del 15 di fatti vi si tenne una riunione quanto numerosa, altrettanto tumultuaria. Noi non vi eravamo, chè giammai volemmo frequentare circoli. Bensì abitando di prospetto al circolo popolare, avemmo agio di vedere e di udire quel che ora diremo.

Prima però di raccontare ciò che si passò in quella fucina di cospirazioni, dobbiam premettere la narrazione di uno dei più turpi e obbrobriosi episodi, che nella stessa sera ebbe luogo.

Vedevansi (e inorridiamo nel raccontarlo) turbe di giovani plaudenti, con faci, e cartelli, e bandiere tricolori vagare pel Corso canterellando, ed estollendo l’assassinio del Rossi. Sì fu vero purtroppo che andavasi gridando: « Benedetta quella mano che il Rossi pugnalò », e che rivaleggiavano i membri di quelle orgie infernali per ascriverne ciascuno a sé il merito. Erano orgie briache di sangue, e gavazzanti per colpe e per vendette, che scorrazzavan tripudianti per le vie di Roma, e a tanto spinsero la inumana ferocia, che là ove discioglievasi in pianto la famiglia dell’estinto, incontro il palazzo Doria, arrestaronsi per glorificare quella mano che alla vedova tolse lo sposo, al sovrano il fido ministro, a Roma la sua sicurezza e le sue nascenti speranze.

E tu o vessillo tricolore, che fosti bene spesso testimonio di tante nefandità che sotto i tuoi auspici si commisero, incomincia dal farti ribenedire, se vuoi che sotto la tua ombra onorata possano gl’Italiani fondare un giorno il regno della libertà. Finora assistesti alle orgie schifose di plebe insensata e proterva, e all’ombra tua perpetraronsi atti molteplici che disonorano l’umanità. Della libertà non parliamo: essa fu sempre in sulla bocca dei mestatori, ma calpestata poi e profanata, rimase una parola vuota di senso.    


[2] Firenze, 1869, Volume Secondo, pp. 505-513.
[3] Giornale satirico liberale dell’epoca.