Vincenzo Vinciguerra: Un affare di famiglia (sul trattamento privilegiato concesso a Mario Moretti e ad altri brigatisti)

Mario Moretti

Dal sito Archivio Guerra Politica:

http://www.archivioguerrapolitica.org/?p=4340
 
UN AFFARE DI FAMIGLIA

Opera, 16 marzo 2013

Ammazzare i cinque uomini della scorta di Aldo Moro, prelevare quest’ultimo per ucciderlo, poi, il 9 maggio 1978 per i brigatisti rossi che hanno preso parte all’operazione è stato un vero affare.
Come ogni anno, nella ricorrenza della strage di via Fani, il 16 marzo 1978, si svolge un’ipocrita commemorazione dei caduti, mentre il maleducato propagandista di regime, Giovanni Minoli, dedica al loro ricordo una puntata della sua trasmissione, “La storia siamo noi”.
Politici e giornalisti di regime ricordano i morti, danno anche la parola ai loro famigliari, ma tutti omettono di raccontare agli italiani che i brigatisti rossi che li hanno uccisi hanno ricevuto dallo Stato un trattamento privilegiato e tutti i benefici di legge che ne hanno favorito il ritorno in libertà.
Questo del trattamento riservato a Mario Moretti ed ai suoi compagni è un capitolo che si cerca di tenere segreto per evitare che gli italiani si facciano delle domande e cerchino delle risposte.
Mario Moretti all’interno del carcere di Opera è stato trattato come un collega dai secondini per i quali era un intoccabile, da favorire in ogni modo.
Inserito fra i dirigenti della “Lombardia informatica”, Mario Moretti da 23 anni riceve un lauto stipendio sfruttando il lavoro a cottimo degli altri detenuti.
Nel 1993, a soli 12 anni dall’arresto, è andato in permesso premio; due anni dopo era al lavoro esterno; altri due anni, nel 1997, gli veniva concessa la semi-libertà perché aveva riconosciuto, bontà sua, il fallimento della lotta armata.
Non gli hanno ancora concesso la condizionale proprio per evitare che divenga di pubblico dominio il trattamento privilegiato di cui è oggetto.
La semi-libertà, per coloro che non lo sanno, consente a Mario Moretti di stare fuori dal carcere 15 ore al giorno, festivi compresi, obbligandolo a dormire in cella la notte.
È una detenzione virtuale.
Se questo è quanto è toccato al presunto capo delle Brigate rosse, gli altri compartecipi all’agguato di via Fani sono da anni tutti in libertà, manco a dirlo, tutti dissociati, ravveduti, ricreduti ma non troppo, come si è visto al funerale di Prospero Gallinari quando hanno intonato “l’internazionale”.
Anche Gallinari ha preso parte alla strage di via Fani ed al sequestro Moro, ma è stato rimesso in libertà nel 1993, dopo la visita in carcere di Francesco Cossiga e una campagna stampa che lo voleva morente per i gravi disturbi cardiaci che lo affliggevano.
È morto, per infarto, 19 anni dopo essere stato rimesso in libertà.
Alessio Casimirri è da sempre in Nicaragua, senza che lo Stato italiano abbia mai fatto nulla di serio per farselo consegnare. Alvaro Lojacono è intoccabile in quanto cittadino svizzero, così che sola in carcere è oggi Rita Algranati, che in quell’agguato ebbe una parte marginale, arrestata nel 2004.
Rossana Rossanda in un articolo commentò che le idee ed i propositi delle Brigate rosse le ricordavano “l’album di famiglia”, intendendo quella marxista-leninista, ma il dopo-Moro di questi brigatisti rossi richiama alla mente qualche altra “famiglia”, quella dei democristiani e della comunità dei servizi segreti italiani e stranieri.
Bruno Seghetti, altro beneficato, al momento dell’arresto aveva in tasca i nominativi e i numeri telefonici dell’ambasciatore israeliano in Italia e dell’addetto militare della stessa ambasciata.
Per quale motivo? Domanda rimasta senza risposta, ammesso che qualcuno l’abbia mai rivolta a Bruno Seghetti che, da parte sua, si è ben guardato dal dare una spiegazione.
Sono passati 35 anni dall’agguato di via Fani, dal sequestro e dall’omicidio di Aldo Moro ma nessuno dei misteri che avvolgono quell’operazione è stato mai chiarito.
Mario Moretti ed i suoi compagni hanno barattato il silenzio con i benefici di legge ed il ritorno in libertà, guadagnandosi l’appoggio di Francesco Cossiga, che sulla morte di Aldo Moro ha costruito la sua fortuna politica, della Democrazia Cristiana e del Partito comunista.
Come un pappagallo ammaestrato, il direttore onorario del mandamento penale di Opera, Mario Moretti, ripete ad ogni occasione che “dietro alle Brigate rosse c’erano le Brigate rosse”, ma non ci crede più nessuno.
Per un individuo come Mario Moretti la credibilità conta poco, anzi niente rispetto al conto in banca  per garantirsi una serena vecchiaia, la libertà ed i privilegi di cui gode.
La libertà non interessa ai brigatisti rossi che, partiti per fare la rivoluzione, si sono fermati nelle “stazioni” del Sismi, della Cia e del Mossad.
Non è da loro che il Paese possa attendersi la verità su quanto è accaduto sul versante della lotta armata condotta dalla sinistra in Italia.
“Le rivoluzioni – diceva Lenin – le preparano gli idealisti, le fanno gli schiocchi, le sfruttano i farabutti”.
Moretti ed i suoi compagni sfruttano i segreti accumulati nel corso di una rivoluzione fallita, confermando la scelta, comune ai più in questo Paese, che è più conveniente essere “un cane vivo piuttosto che un leone morto”.
E di cani ha bisogno questo regime, che stiano silenziosi e a cuccia in attesa della scodella e dell’osso da rosicchiare.
I brigatisti rossi che hanno partecipato all’agguato di via Fani e all’omicidio di Aldo Moro fingono ormai di essere tornati in libertà perché s’illudono che nessuno riesca a vedere il guinzaglio che il padrone tiene saldamente nelle sue mani.
Sbagliano, sia loro che il padrone.
Il giorno in cui i loro segreti ignobili non potranno più essere custoditi, perché anche i cani ed i padroni muoiono, la verità sull’affare di famiglia rappresentata dall’eccidio di via Fani e dall’omicidio di Aldo Moro emergerà in tutta la sua verità.
Basta attendere.