Carlo Mattogno: Claudio Vercelli e il "negazionismo"


CLAUDIO VERCELLI E IL “NEGAZIONISMO” 

Di Carlo Mattogno
Nello scritto “Negazionismo 2.0” (in: http://moked.it/blog/2014/04/13/negazionismo-2-0/ ), Claudio Vercelli si esibisce nella solita tiritera di elucubrazioni fumose e soprattutto avulse dalla realtà che questo scottante tema impone. Le crescenti  disquisizioni sul “negazionismo” assomigliano sempre di più a discussioni sul colore delle penne o sulla forma del becco dell'araba fenice: tutti questi sagaci critici danno per scontato che l'oggetto delle loro attenzioni esista ed esista come se lo rappresentano e  nessuno osa mai indagare la realtà. Vidal-Naquet diceva che bisogna  parlare  di revisionismo ma non con i revisionisti e a suo merito va riconosciuto che, per quanto in modo sconclusionato, egli discusse alcuni degli argomenti revisionistici dell'epoca; la nuova parola d'ordine è invece che non bisogna parlare neppure  di revisionismo (nel frattempo degradato a “negazionismo”, che sarebbe l'atteggiamento di colui che rifiuta «aprioristicamente [sic!] lo sterminio degli ebrei attraverso le camere a gas in quanto fatto storico [sic!]»), ma discettare sulle presunte intenzioni e metodiche dei “negazionisti”, coll'immancabile appello al motto che non si discute con chi crede che la terra sia piatta. La situazione reale è esattamente contraria. I nostri solerti critici sono come chi consideri un “fatto storico” assodato che Copernico fu un fiero assertore del geocentrismo e si industri  poi a scandagliare le ragioni di tale posizione: forse era un “complottista” tolemaico-clericale, forse era un bieco anti-eliocentrista, forse...

Vercelli è un degno rappresentante di questo genere di critici; egli  si guarda bene dall'esaminare i testi revisionistici per accertare se dicono davvero che “la terra è piatta”: se fosse così, se il revisionismo sostenesse davvero scemenze così grossolane, egli potrebbe inondare i suoi lettori di un profluvio di contestazioni; invece svicola graziosamente, dandosi alla ricerca delle ragioni del “negazionismo” e ne individua due principali – queste sì, vere scemenze –: il complottismo  e l'antisemitismo, l'una non meno disperata dell'altra. Sulla corbelleria del complottismo mi sono dilungato a sufficienza nello capitolo 2 dello studio I “Campi di sterminio” dell'Azione Reinhardt” e non è il caso di ritornarvi qui. L'antisemitismo è la solita banale scappatoia cui è costretto a ricorrere chi non ha niente di serio da dire:

«L’antisemitismo, come ulteriore pilastro, è la sostanza stessa della subcultura negazionista, il suo strato più profondo, sul quale si rispecchia trovando una coerenza che, altrimenti, rischierebbe di non avere».

Non vale neppure la pena di commentare.

Sbirciando ancora nello stupidario del provetto anti-“negazionista”, Vercelli ripropone, con una formulazione diversa, la trita accusa del “falsus in uno, falsus in omnibus”, un'altra scemenza messa in circolazione dai nostri zelanti critici.

«Questo particolarismo temporale, questo ripiegamento sul momento presente è consonante con l’atteggiamento di chi, negando, rifiuta la visione complessa (e complessiva) della storia, contrapponendogli l’ossessione per il particolare. Il negazionismo è il trionfo del particolare: nella ricerca esasperata di un qualcosa che, non coincidendo con l’intera trama degli eventi, possa essere usato per delegittimare il discorso storico, si differenzia totalmente dal revisionismo (di cui tuttavia rivendica a sé il nome, camuffandosi come opera di revisione culturale e non di stravolgimento fattuale del passato), che invece è una filosofia della storia, dove cioè si discutono nessi di causa ed effetto ma non si mettono in discussione gli eventi in quanto tali».

In altri termini, il revisionismo brandirebbe un particolare (naturalmente insignificante) di un documento o di una testimonianza per invalidare il tutto. C'è da chiedersi in quali testi revisionistici Vercelli abbia trovato una simile scempiaggine: certamente non nei miei.

Ma la presunta  «ossessione per il particolare» è anche un oculato stravolgimento di una corretta metodica revisionistica reale, che si potrebbe chiamare “verifica del particolare”. È noto infatti che sulle fantomatiche “camere a gas” esistono soltanto testimonianze e che queste sono contraddittorie su tutti i punti essenziali, il che rende ovviamente impossibile qualunque ricostruzione storica. Non sapendo a che cosa appigliarsi, gli indefessi ricostruttori olocaustici hanno inventato la teoria della “concordanza sull'essenziale”,  già propugnata da Georges Wellers, che li dispensa dall'esame dei particolari. Spiegherò la faccenda con un esempio concreto. I due principali testimoni delle “camere a gas” del  “campo di sterminio” di Bełżec, Kurt Gerstein e Rudolf Reder, hanno reso al riguardo dichiarazioni contraddittorie; secondo l'uno la struttura di gasazione possedeva un motore a benzina i cui gas di scarico però erano convogliati all'esterno delle “camere a gas”; secondo l'altro, il motore era Diesel e i suoi fumi erano diretti nelle “camere a gas” e uccidevano le vittime: la contraddizione è lampante, ma entrambi i testimoni hanno asserito che a  Bełżec venivano uccisi degli Ebrei, dunque le due testimonianze sono “concordanti sull'essenziale”!  Non c'è bisogno di spiegare che sono proprio i particolari a rendere concreta una dichiarazione, che altrimenti resterebbe fumosa e aleatoria, sicché l'affermazione di principio della “concordanza sull'essenziale”, senza un esame accurato dei particolari, non ha senso. Le soluzioni storiografiche al dilemma, adottando una misura più o meno colma di malafede, sono state diverse: privilegiare Gerstein, addurre entrambi i testimoni tacendo le contraddizioni e, ultimamente, sotto la pressione revisionistica, dare maggiore importanza a Reder come persona meglio informata sui motori (lui, un fabbricante di sapone!) di Gerstein (che era ingegnere minerario), il tutto condito con una ulteriore salva di puerili menzogne, al fine di buttare nella discarica olocaustica il motore Diesel (i cui gas di scarico sono notoriamente molto meno appropriati di  quelli di un motore a benzina per uccidere esseri umani).

Sempre sul tema dell'«ossessione per il particolare», Vercelli aggiunge:

«L’attenzione esasperata per il particolare, quindi, risponde non solo ad una consapevole strategia di manomissione della conoscenza ma a un più generale bisogno di dominarla attraverso l’attenzione spasmodica per il singolo dato, a discapito di tutto il contesto».

Affermazione del tutto risibile, in riferimento al revisionismo. Ad esempio, gli storici olocaustici occidentali per decenni hanno studiato la storia di Auschwitz fuori contesto, cioè in funzione del presunto sterminio e anche successivamente hanno addotto presunti “indizi criminali” riguardo alle “camere a gas” parimenti fuori contesto. Sono proprio io che li ho spiegati ricollocandoli nel loro reale contesto storico-documentario. Nell'archivio di via Viborgskaja a Mosca un Gerald Fleming, ma anche un Jean-Claude Pressac, hanno consultato soltanto i fascicoli relativi ai crematori (come si desume dalle firme apposte negli appositi moduli all'atto della consutazione), mentre Jürgen Graf ed io abbiamo visionato tutti i fascicoli (oltre 88.000 pagine), perché eravamo interessati alla storia del campo nella sua totalità, appunto al suo contesto generale.

Vercelli tenta poi di giustificare in qualche modo la sua incapacità di confutare le argomentazioni revisionistiche anticipando presunte metodiche “negazionistiche”, ma questo tentativo tradisce soltanto il suo terrore di fare la fine di suoi congeneri, come Valentina Pisanty o Anna Foa, che si sono prima di lui avventurati scriteriatamente in pseudo-confutazioni di uno pseudo-revisionismo, e hanno ricevuto la lezione che meritavano:

«Il negazionismo ideologico e strutturato, quello che si trova sul Web, come in certe pubblicazioni, e che argomenta quasi allo sfinimento le sue contro-verità, si basa senz’altro sul rifiuto della conoscenza storica – se con essa intendiamo l’analisi dei fenomeni sociali attraverso il tracciato della loro complessità, della stratificazione, della mutevolezza e dell’interazione – ma ambisce comunque ad affermare una sua egemonia sul discorso storico di senso comune. Non importa quanto ciò possa essere basato sulla mistificazione poiché il negazionista ribalterà immediatamente tale accusa contro quanti dovessero confutarlo, esercitando un violento fuoco di sbarramento attraverso tutte le strategie discorsive che ha a disposizione.

L’agire negazionista, infatti, si basa essenzialmente sull’adozione di procedure retoriche di dissimulazione, alterazione e manomissione della verità conclamata (il fatto storico dello sterminio) e di simulazione di una verità alternativa (la «menzogna di Auschwitz», una Disneyland degli orrori ad uso e consumo dei tanti creduloni in circolazione)».

Il significato reale è questo: è inutile che io cerchi di confutare i revisionisti, perché le loro repliche mi metterebbero a tacere e non saprei più che cosa rispondere.
 
Non voglio essere  noioso, ma, dato che la situazione è grottescamente kafkiana, sono costretto a ripetermi.  Tutti accusano il revisionismo di falsificazione della verità storica, impostura, inganno ecc. ecc. Vercelli  da par suo ribadisce che esso è «mistificazione»,  «stravolgimento fattuale del passato» e che mette in atto «procedure retoriche di dissimulazione, alterazione e manomissione della verità conclamata»: qualcuno, magari Vercelli stesso,  vuole cortesemente darmi la soddisfazione di  addurre un esempio, un solo esempio di queste mie presunte nefande  pratiche metodologiche?  Ho indicato cinque libri, più di 3.500 pagine, affinché siano scandagliati per cercare questo unico esempio: chiedo troppo?

Intanto invito Vercelli a meditare sulla sua “regola del sospetto”:

«L’obiettivo del negazionismo non è tanto ottenere da subito l’assenso sul loro obiettivo di massima, l’affermazione dell’inesistenza della Shoah nella sua natura di fatto storico, quanto di corroborare un target intermedio, quello del dubbio sistematico, dello scetticismo generalizzato. Se la storia la scrivono i vincitori, come possiamo per davvero sentirci al sicuro dal sospetto che non sia una menzogna bella e buona? La regola del sospetto riconduce poi a quelli che sono i due pilastri del negazionismo, il complotto e l’antisemitismo».

Mi sembra molto più evidente che la “regola del sospetto”  riconduce  all'atteggiamento protervo e arrogante dei critici olocaustici.

Perché vogliono mettere a tacere  i revisionisti con una legge? E perché invece di confutare i loro scritti, cosa che per i loro mezzi immensi e per la presenza di una presunta documentazione copiosissima dovrebbe essere un gioco da bambini, si perdono sempre in futili chiacchiere su complottismi e antisemitismi,  insulti e accuse  infondate? Sono questi i  fatti che fanno sorgere sospetti sulla “verità” olocaustica, più ancora  del fatto che  «la storia la scrivono i vincitori».
 

                                                                                                             Carlo Mattogno.