Il giudice Guido
Salvini, uno dei pochi magistrati che stimo – noto fra l’altro per le due
storiche sentenze-ordinanze
sull’eversione stragista – ha inviato nei giorni scorsi a me e ad altre persone
interessate al suo lavoro, una versione ridotta, in formato pdf, del suo libro OFFICE AT NIGHT – Appunti non ortodossi di
un giudice, recentemente pubblicato dalle Edizioni GettaLaRete:
Il pdf lo potete leggere qui:
Sono pagine la cui ispirazione di fondo, almeno a me, ha
ricordato La solitudine del riformista,
il libro del compianto economista Federico
Caffè.
Dal libro di Salvini, riproduco qui l’INTRODUZIONE:
Anni
di indagini e di vita all’interno del Palazzo di giustizia di Milano possono
essere, per chi sa usarlo, un osservatorio privilegiato sulla città e sulla
magistratura, un’ istituzione quasi “sacrale” di cui dall’esterno è facile
percepire le luci ma meno le ombre. La scrivania prende vita e, come nell’incisione
di Maurits Escher, si fonde in un continuum con la città, un unico piano in cui
libri e codici, e anche una pipa, si affacciano su una strada, case e persone.
Intorno
alle indagini, ai processi, alle prese di posizione pubbliche delle
associazioni dei magistrati, in genere risposte alle iniziative “ostili” della
politica, esiste una zona non illuminata che non può essere scritta nelle sentenze
e che viene taciuta nei dibattiti pubblici sulla giustizia.
Ho
provato allora ad affidare a qualche articolo queste esperienze, quello che in
una sentenza non avrei potuto scrivere e nelle sentenze altrui non avrei letto
e le riflessioni sui meccanismi del nostro mondo, date magari per scontate in
privato, ma che scompaiono, per immediata autocensura, negli interventi
pubblici. Qualche idea non sistematica ma personale, non “dovuta” a nessuno e priva di vantaggi, sulla giustizia, i processi
di terrorismo, la laicità delle istituzioni. Il prodotto spontaneo di tanti
fascicoli letti e di discorsi della magistratura “ufficiale” ascoltati e anche
dei messaggi, dei rumori di fondo che vengono da una città prima azzurra e ora
arancione. Qualche articolo sulla giustizia che probabilmente non mi varrà lodi
e promozioni. La magistratura ha molti e anche troppi meriti. Valgano per
tutti, dopo il terrorismo, le inchieste sul radicamento della ‘ndrangheta anche
nel Nord e sulla nuova corruzione dei pubblici poteri. Ma questi meriti hanno
avuto anche un effetto perverso. Anche senza raccontare lo scadimento della
qualità umane che si è registrato negli ultimi vent’anni, invidie, piaggeria,
arrivismo e una buona dose di arroganza soprattutto quando si ha di fronte
l’utente “piccolo”, la conseguenza principale è stata considerarsi gli unici e
perfetti depositari della verità.
La
trasformazione più profonda è avvenuta nel ruolo assunto dal Csm ben diverso da
quello immaginato dalla Costituzione di semplice organo di alta amministrazione
che gestiva concorsi e le carriere dei magistrati, divenuto col tempo
istituzione semi-politica e semi-legislativa in grado di esprimere indirizzi
generali di politica giudiziaria e nel contempo titolare di una sorta di
diritto di veto sulle proposte di legge. Con in più l’Anm, che ne produce
integralmente i consiglieri, e che ne duplica le funzioni, esternazioni quotidiane
e minacce di sciopero comprese. Nel Csm le “correnti”, “partiti” dei giudici,
inossidabili con la loro nomenklatura e la loro forza organizzativa, vero
centro decisionale della magistratura dove l’autonomia del singolo magistrato,
il primo dei valori, muore e a cui è consigliabile iscriversi. Funzionano
infatti da “acceleratori di diritti” veri o presunti per i loro iscritti e sono
in grado di trasformare in eccellente un magistrato mediocre purché militante
in una di esse e a portarlo all’agognato incarico direttivo. Forse in un Paese
dove politica e amministrazione sono largamente delegittimate l’assunzione di
questo ruolo è stata sociologicamente inevitabile.
Ma
non si può volere contemporaneamente l’una e l’altra cosa. Se si vuole
mantenere il ruolo di “dirigenza politica” della magistratura e talvolta di
potere autoreferenziale a qualcosa bisogna pur rinunziare. Ad esempio a nominare
i capi degli uffici e ad esercitare la Giustizia disciplinare che spesso
colpisce non i reprobi ma i dissidenti e i
“riottosi”. Tali decisioni non sopportano accordi e mercanteggiamenti di
forze organizzate in debito o in credito con i candidati. Sorteggiare quindi i
consiglieri del Csm, dato che le correnti continuerebbero comunque ad esistere nell’Anm
, o in alternativa sorteggiare tra una selezione di candidati idonei i capi
degli uffici spezzando così il lavorio dei tanti che dedicano buona parte del
loro tempo a preparare la scalata ai concorsi e costruirsi i migliori rapporti
con i capi corrente. Il gioco non varrebbe più la candela: fine d’incanto delle
manovre di corridoio. E a corollario il problema della separazione della
carriera della magistratura da quella della politica, forse ancor più attuale
della separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri, dato che il
servizio in magistratura è visto sempre più spesso non come un impegno di lunga
durata, non solo nei grandi processi ma anche in quelli piccoli che non fanno
notizia, ma come un trampolino di lancio per incarichi esterni e carriere
politiche che proprio nelle correnti trovano i rapporti e le relazioni giuste
per decollare.
Altri
articoli nascono dall’esperienza nei delitti di terrorismo che più di altri
coinvolgono la coscienza del giudice perché non lo introducono in un mondo di
“delitti gratuiti” in cui alcune potenzialità più alte dell’uomo si trasformano
nelle azioni più vili.
La
pretesa dell’assassino Cesare Battisti di dipingersi come un perseguitato
politico in Italia condannato senza garanzie, scenario di cui è riuscito a convincere
il Brasile, un paese, in cui, nonostante molti progressi, la polizia commette
ancora esecuzioni extralegali anche di ragazzini.
L’omicidio
a Milano in via De Amicis del brigadiere Antonino Custra, durante un attacco
ripreso dalla fotografia di uno sparatore incappucciato e a braccia tese,
divenuta un’icona negativa di quegli anni. Un caso risolto 15 anni dopo,
individuando in quella stessa fotografia, come nel film Blow-up, il secondo fotografo che, celato da un albero sul lato
opposto della strada, stava fotografando il primo e lo sparatore. Nascoste in
un libro nel suo studio c’era una serie di 28 negativi, mai scoperti che
ritraevano l’intera scena dell’omicidio.
Ma
anche la storia dell’impegno della magistratura contro il terrorismo ha la sua
metà oscura, che si vorrebbe ma non si deve dimenticare.
L’assassinio
di Walter Tobagi, certamente non frutto di un complotto come sosteneva Craxi,
ma un delitto che forse si poteva prevenire ponendo attenzione alle confidenze
che un Carabiniere era riuscito ad ottenere da un informatore. Un passo falso
degli investigatori, non un complotto, in cui però la magistratura, per un
eccesso di tutela e di difesa ad ogni costo della perfezione delle proprie
indagini, non ha mai avuto il coraggio di acquisire il pacco delle relazioni
dell’informatore che giacciono a tutt’oggi in un archivio dell’Arma dei carabinieri.
Giungendo sino a condannare per diffamazione i giornalisti che ne avevano
denunciato l’esistenza, con una sentenza che contrasta con il diritto di
informazione e quello dei cittadini a conoscere senza censure la storia di quegli
anni. Ancora più deludente e non giustificato dalla concitazione dei momenti più
caldi della lotta al terrorismo è stato il metodico abbandono, non trovo espressione
più adeguata di questa che sfiora l’ossimoro, delle indagini su piazza Fontana.
Un’indagine prigioniera da oltre vent’anni non più dei Servizi segreti e delle
“forze oscure”, come sarebbe naturale pensare, ma di un blasonato ufficio
giudiziario, la Procura della Repubblica di Milano. Prima, per quasi dieci anni
le ha ignorate, poi ha profuso la maggior parte del suo impegno ad attaccare il
giudice istruttore (era questo in gioventù il mio mestiere), poi si è resa
invisa o ha dimenticato tutti i possibili testimoni non riuscendo a portare
nulla alle indagini. Infine negli ultimi anni, ostinatamente, si è rifiutata di
rispondere seriamente alla richiesta dei familiari delle vittime di riaprire le
indagini, attività che sarebbe stata, sulla scia della medesima attività
avviata dai colleghi di Brescia per piazza della Loggia a costo zero. Con la
conseguenza se non l’obiettivo di giungere alla fine biologica delle indagini e
cioè la morte di tutti i testimoni.
Le
vicende che racconto nell’intervista,
quella di Giovanni Ventura, lasciato morire, come molti altri possibili
testimoni, in Argentina senza essere nemmeno contattato e dell’agenda
dimenticata che avrebbe quasi certamente cambiato l’esito del processo su
piazza Fontana sono solo due di quelle per cui un tempo la sinistra avrebbe
gridato all’insabbiamento ed io ora chiamerei, più tecnicamente, malpractice giudiziaria. Qualche articolo, scritto come gli altri di getto, riguarda
i rapporti tra le istituzioni e le religioni e tra l’Islam in primo luogo e i
diritti dei “diversi”.
La
presenza del vicesindaco di Milano al Ramadan del 2012, espressione della
bizzarra idea per cui le amministrazioni comunali dovrebbero ossequiare e di
fatto sponsorizzare un credo, non a caso quello della comunità
politico-religiosa che alza di più la voce e che si muove, islamici “moderati”
compresi, con l’obiettivo finale di sostituire al cittadino, figlio dell’Illuminismo,
il credente controllato in ogni aspetto della sua vita civile dai suoi capi
religiosi. Un passo indietro nell’affermazione della laicità delle
amministrazioni. Come se non bastasse il tributo già offerto quotidianamente
alla Chiesa Cattolica con l’introito quasi intero dell’8 per mille, le
esenzioni fiscali e il sostentamento statale degli insegnanti di religione,
frutto di un Concordato che nessun partito salvo i Radicali, ha il coraggio di
mettere in discussione.
Intanto
scivola via senza l’attenzione nemmeno dei nostri dei giuristi, ed era il caso
di ricordarla in un articolo, la coraggiosa sentenza della Corte di Giustizia
dell’Unione Europea che impedisce l’espulsione di due appartenenti al credo
Ahmadi, piccola dissidenza pacifista dell’Islam, per sottrarli alle violenze
cui sarebbero soggetti in Pakistan. Una lampadina che ricorda ai ciechi come in
quel paese e in gran parte dei paesi del Medio Oriente siano perseguitati con
sistematicità i “diversi”: minoranze religiose, apostati e non credenti, gay,
artisti, blogger, giornalisti e donne, sino alla grottesca cancellazione in
Arabia Saudita delle figure femminili dai cataloghi pubblicitari dell’Ikea.
Una
situazione non troppo diversa dal vecchio apartheid del Sudafrica che in altri
tempi avrebbe spinto la comunità internazionale all’embargo mentre oggi non
provoca alcun cenno di protesta né nella destra del libero mercato né nella
sinistra affascinata dal “fascismo verde” islamico e non crea alcun imbarazzo a
concludere contratti ed affari. E ancora, in tema di laicità, una riflessione sul
caso Eluana e sul diritto a decidere sulla nostra vita e sulla sua fine. Una
scelta per cui la società politica tarda a munire tutti noi di una legge
razionale ma che spesso anche ciascuno di noi, come individuo, tende dentro di
sé a rimandare: “ci sarà un domani per pensarci”.
Accanto
al sindaco di Milano che sponsorizza il Ramadan, racconto di un altro sindaco,
questa volta di centrodestra che, con una distorsione speculare, vieta un
centro spirituale buddista, forse del tutto immemore che l’Unione Buddista
Italiana, a differenza dell’Islam, ha stipulato definitivamente con lo Stato
italiano l’Intesa prevista dall’art. 8 della Costituzione oltre a sottoscrivere
la “Carta dei valori della cittadinanza e dell’integrazione” che comporta la
condivisione integrale dei valori democratici della Costituzione. Infine a piazza
Fontana è dedicato l’ultimo articolo, scritto ad oltre quarant’anni da quel 12
dicembre, che racconta anche la storia censurata della tardiva comparsa della
Procura di Milano nella ricerca sulla strage e del naufragio volontario
dell’inchiesta che ben presto ne è seguito. Ho pubblicato buona parte di questi
articoli grazie alla disponibilità offertami dal quotidiano “Il Riformista”,
scomparso purtroppo nel 2012. Un quotidiano parte del mondo progressista ma
soprattutto una voce critica al suo interno che non aveva timore di dire
qualcosa di non politicamente corretto.
Forse
per me un legame sotterraneo con l’antica militanza, ai tempi del liceo
Manzoni, nel Movimento Socialista Libertario, una via di mezzo tra la vecchia
anarchia e i radicali, piccolo e inviso tanto al mondo benpensante quanto agli
stalinisti del Movimento Studentesco e agli analoghi gruppi settari. Ho
intitolato questa raccolta di articoli Office
at Night, il titolo di un quadro di Edward Hopper non tra i più noti che
rappresenta un uomo solo, nel suo ufficio, di sera, intento a leggere alcuni
fogli alla sua scrivania.
Anch’io
ho scritto quasi sempre a tarda sera nel Palazzo ormai deserto quando le carte
che mi erano passate dinanzi, i processi, le sentenze e gli articoli di quel
tempo sulla giustizia si condensavano in un piccolo flusso di idee, frutto del
punto di osservazione sul mondo in cui mi trovavo: la mia vecchia stanza al
settimo piano del Tribunale da cui si vede il tramonto sui tetti di Milano fino
alle guglie del Duomo e in mezzo, luogo immaginario, piazza Fontana.
Guido Salvini
febbraio
2013
“Ancora più deludente e non giustificato
dalla concitazione dei momenti più caldi della lotta al terrorismo è stato il
metodico abbandono, non trovo espressione più adeguata di questa che sfiora
l’ossimoro, delle indagini su piazza Fontana. Un’indagine prigioniera da oltre
vent’anni non più dei Servizi segreti e delle “forze oscure”, come sarebbe
naturale pensare, ma di un blasonato ufficio giudiziario, la Procura della
Repubblica di Milano”.