Speciale caso Priebke: La Stanza di Montanelli del 25.3.1998


Tullia Zevi
IL DOVERE DI DIFENDERE LA PROPRIA IDENTITA’ (La Stanza di Montanelli del 25.3.1998)
Caro Montanelli, Attraverso la "stanza" desidero esprimere tutta la mia ammirazione alla signora Tullia Zevi che, sul caso Priebke, si e' espressa con queste nobili parole: "Tra migliaia di nazisti che hanno coperto di orrore l'Europa, la sorte ha segnato lui. Non e' l'uomo che conta. Priebke e' un simbolo costretto ad affrontare il suo destino che per lui e' duro". Ora e' tempo di dimenticare e, se possibile, perdonare. Anche lei, Montanelli, quando a suo tempo si e' occupato del "caso" era giunto alla medesima conclusione che io condivido pienamente. Non si dovrebbe piu', a questo punto, infierire su un vecchio ultraottantenne e che appartiene ormai alla storia. Marisa Bellocchio, Milano
Cara amica, Non ho purtroppo (e sottolineo il "purtroppo") molti rapporti con la signora Zevi: prima di tutto perche' lei sta a Roma ed io a Milano, eppoi perche' non ho bisogno di consultarla, sicuro come sono di trovarla sempre sulle mie posizioni. Con questa differenza: che mentre le posizioni mie sono facili in quanto impegnano solo me stesso, quelle di Tullia sono estremamente difficili in quanto essa parla in nome di una comunita' nella quale non sempre nobilta', umanita', equilibrio e buon senso suscitano eco favorevole. Mi dispiace doverlo dire perche' io sono un filosemita doc. Ma certe scritte apparse - da quanto ho letto - sulle mura del ghetto di Roma, che invitavano Tullia a dimettersi da Presidente, dimostravano che quella comunita' non e' degna di essere rappresentata da una voce alta come quella di Tullia. Dicendo questo, so di non rendere a Tullia un servizio. Ma mi scappa dalla penna e non posso tacerlo, anche perche' qui e' in gioco non il caso Priebke bene o male (anche se piu' male che bene) risolto, ma qualcosa di molto piu' grosso. Chiedo ai miei amici ebrei (amici sempre, malgre' tout) cosa credono di fare e di ottenere tenendo dalla mattina alla sera il dito puntato contro l'intera cristianita' (che oltre tutto e' figlia loro), disseppellendo continuamente i loro morti, cercando di differenziarli da quelli di tutti gli altri, senza mai stancarsi di riaprire processi, anche se gia' passati in giudicato, e insomma rifiutandosi con pervicacia di chiudere i conti col passato. Che una chiusura di conti comporti sempre delle ingiustizie e' fatale e inevitabile. Ma bisogna arrivarci. Perche' a lasciarli aperti s'innesca una spirale di reazioni e contro - reazioni, che non si sa dove puo' condurre. Cioe' lo si sa benissimo. Ed e' per questo che ne sono atterrito. Alle corte, e per venire al dunque. Che gli ebrei vogliano difendere quella che si suole chiamare la loro "identita", cioe' il retaggio dei loro valori culturali e spirituali (e Dio sa se ne possiedono), non e' soltanto un loro diritto; e' un loro dovere. Ma che lo spingano fino a voler creare una specie di apartheid tesa a differenziarsi sempre di piu' dalle societa' cristiane o gentili o comunque vogliano chiamarle in mezzo alle quali vivono, a tenerle perpetuamente sotto processo senza mai contentarsi dei loro atti di contrizione (come questo ultimo della Chiesa che persino a un laicaccio come me e' sembrato abbastanza ose') mi sembra un atteggiamento, oltre che supremamente ingiusto, anche dissennatamente masochista perche', dopo duemila anni di persecuzioni, dovrebbero avere imparato che non c'e' apartheid che prima o poi non ne provochi un'altra uguale e contraria.
Montanelli Indro
Pagina 41
(25 marzo 1998) - Corriere della Sera
http://archiviostorico.corriere.it/1998/marzo/25/dovere_difendere_propria_identita_co_0_98032511737.shtml