STORIOGRAFIA
OLOCAUSTICA E LEGGI LIBERTICIDE ANTIREVISIONISTICHE
Di Carlo
Mattogno
I - La legge
liberticida
Il “Disegno di
legge” n. 3511 contro il cosidetto “negazionismo”, se le
sue conseguenze non fossero così tragiche («la reclusione fino a tre anni»!), sarebbe risibile, sia per la forma, sia per
il contenuto.
Espongo le
parti salienti del suo testo con qualche breve commento.
«ONOREVOLI SENATORI. – Il drammatico aumento di forme di
razzismo e di negazione di fatti storici incontrovertibili, come lo sterminio
degli Ebrei o di altre minoranze, negli ultimi anni è diventato sempre più
evidente sia in Europa che in Italia».
“Fatti
storici incontrovertibili”? I relatori non hanno la più vaga idea non
solo di che cosa sia la storiografia revisionistica, ma neppure quella olocaustica. Il richiamo alle “altre
minoranze” serve a velare il fatto, questo sì incontrovertibile, che il disegno
di legge mira a privilegiare in modo unico ed esclusivo “lo sterminio degli
Ebrei”.
«Non vi è dubbio che il contrasto di queste forme di
alienazione deve essere in primo luogo culturale, di formazione delle giovani
generazioni e dell’opinione pubblica, di sviluppo di una sensibilità civile
tollerante e aperta all’altro e al diverso, basata su una conoscenza quanto più
possibile ampia e critica dei fatti storici».
Principi davvero nobili: una “sensibilità
civile” forcaiola e una “tolleranza”
che reclama una bieca intolleranza, una
“conoscenza quanto più possibile ampia e critica (!) dei fatti storici”
che prescrive la galera per chi la persegua davvero.
«Di fronte a fatti specifici e spesso reiterati di
denigrazione a sfondo razziale e di negazione tendenziosa della verità storica
non può non esserci anche una reazione sul piano giuridico e penale del sistema democratico».
Spiegherò sotto quale sia la genesi e il valore
di questa “verità storica”; quanto alla sua “negazione tendenziosa”, se solo si
considera il mio studio più recente - I forni crematori di Auschwitz
- due volumi con oltre 500 pagine di testo, 300 documenti riprodotti in
facsimile e 370 fotografie, un'opera
eminentemente “affermativa” su un aspetto della storia di Auschwitz sul quale,
in tutta la letturatura mondiale, difficilmente si possono reperire qualche
decina di pagine quantomeno decenti, se solo si considera ciò, viene
semplicemente da ridere.
Il
disegno di legge si pone come obiettivo
«il contrasto di quelle forme di “negazionismo”, cioè
negazione o minimizzazione, del fenomeno del genocidio degli Ebrei e di altre
minoranze etniche, che costituiscono uno degli aspetti più odiosi delle
pratiche razziste».
Dunque
il revisionismo sarebbe una odiosa pratica razzista! Stupisce che in un atto
ufficiale appaia una simile odiosa insinuazione propagandistica.
«Purtroppo, ancora di recente, episodi gravi di aggressione e
denigrazione a sfondo razziale hanno portato l’opinione pubblica e in particolare
la comunità ebraica, a chiedere nuova attenzione per contrastare in particolare
quelle perversioni culturali e civili che portano a negare la persecuzione
degli Ebrei e delle minoranze etniche e politiche da parte del regime».
Qui
almeno si dice francamente da chi è partita l'iniziativa e a chi è rivolta la
legge. Da notare la sottile equiparazione populistica di “persecuzione
degli Ebrei” e “genocidio degli Ebrei”, come se i due termini avessero
il medesimo significato. Ovviamente nessuno “nega” la persecuzione
ebraica.
Il
disegno di legge prevede
«la reclusione fino a tre anni per chiunque, con comportamenti
idonei a turbare l’ordine pubblico o che costituiscano minaccia, offesa o
ingiuria, fa apologia, nega o minimizza la realtà dei crimini di genocidio, dei
crimini contro l’umanità e dei crimini
di guerra, come definiti dagli articoli 6, 7 e 8 dello statuto della Corte
penale internazionale, ratificato ai sensi della legge 12 luglio 1999, n. 232,
e dei crimini definiti dall’articolo 6
dello Statuto del tribunale militare internazionale, allegato all’accordo di
Londra dell’8 agosto 1945 (tribunale di Norimberga).
La
formulazione è volutamente ambigua: la “negazione” o “minimizzazione” è
sufficiente in sé stessa a configurare il reato, anche se è sorretta da
metodologia e documentazione scientifica, oppure richiede per questo
“comportamenti” minacciosi, offensivi ingiuriosi, apologetici? E soprattutto:
la negazione ?
Il
richiamo allo Statuto dell'accordo di Londra dell'8 agosto 1945 è affatto peregrino,
come spiegherò sotto, e mostra tutta l'ignoranza storica degli estensori del
disegno. Essi parlano infatti di “crimini contro l’umanità” e di “crimini di guerra” secondo gli articoli 6, 7 e 8 dello “statuto della Corte
penale internazionale” e “dei crimini definiti dall’articolo 6 dello
Statuto del tribunale militare internazionale”, come se si trattasse di
due diversi statuti, mentre ovviamente si tratta di uno solo, in tedesco, lo “Statut
für den Internationalen Militärgerichtshof” (Statuto del Tribunale Militare
Internazionale), che, all'articolo 6, recita:
«(a) Crimini contro la pace [...].
(b) Crimini di guerra, cioè: violazioni delle leggi o degli
usi di guerra. [...].
(c) Crimini contro l'umanità, cioè: assassinio, sterminio,
schiavizzazione, deportazione o altre azioni inumane, commesse contro qualunque
popolazione civile prima della o durante la guerra, persecuzione
per motivi politici, razziali o religiosi, commessi in esecuzione di un crimine
o in connessione con un crimine per il quale il Tribunale sia competente e
invero indipendentemente dal fatto che l'azione violasse o no (!) la legge del
paese in cui fu commessa».
Gli
articoli 7 e 8 non si riferiscono
minimamente a crimini, ma a semplici norme procedurali.
I
Senatori della Repubblica non sanno che esistono anche i libri?
II - La genesi
della storiografia olocaustica e dell'attuale “verità storica” incontrovertibile
Ogni volta che si dibatte sul
revisionismo, riaffiora anzitutto, invariabilmente, la “teoria del complotto”.
Valentina Pisanty si è soffermata in modo particolare su di essa. A suo avviso,
poiché tutte le
testimonianze olocaustiche sono tendenzialmente
autonome e concordanti sul «nucleo essenziale», allora, se sono false, bisogna presupporre che siano il frutto di un complotto:
«Un
qualche riferimento alla teoria del complotto è la condizione indispensabile
per delegittimare o invalidare un corpus di testimonianze che, sebbene
provengano da fonti diverse e fino a un certo punto autonome, concordino su una
certa ricostruzione storica di eventi passati».
Soltanto
l’idea di un «complotto» come «progetto coerente e concertato di falsificazione storica»
potrebbe rispondere alla legittima domanda del perché «migliaia di testimoni,
per giunta provenienti da sponde politiche contrapposte, abbiano accettato
supinamente di mentire in favore della
causa sionista ad essi estranea».
In questo contesto si potrebbero
aggiungere anche le “confessioni” di ex capi o funzionari nazionalsocialisti.
Nell'immaginario
mediatico, questi sono appunto gli ingenui argomenti che vengono più di
frequente contrapposti alle tesi revisionistiche: la presenza di “migliaia di
testimoni” (cosa completamente falsa per quanto riguarda i tre “campi di
sterminio” di Belzec, Sobibor e Treblinka, per i quali i testimoni si contano
nell'ordine di poche decine; ma anche per Auschwitz i testimoni decisivi non
sono più di qualche dozzina) e l'impossibilità pratica che possano essere tutti
dei mentitori “in favore della causa sionista”, in quanto - e qui si comprende
il significato effettivo della “teoria del complotto” - l'Olocausto sarebbe per
il revisionismo il risultato di un “complotto sionista” in funzione della
costituzione dello stato di Israele. Roba, come si dice, da far ridere i polli.
Nello stesso tempo,
il revisionismo viene anche accusato
di attribuire valore probatorio soltanto ai documenti e di rigettare le testimonianze.
Questo rilievo è più serio ed è anche corretto, ma non certo nel senso
pisantyano che «tali testimonianze sono da
scartare apriori» senza alcuna motivazione. La posizione
revisionistica è infatti che, in campo olocaustico, solo un documento
può costituire una prova.
Nel novero dei documenti rientrano ovviamente anche le fotografie e i reperti
materiali. Tutto il resto, a cominciare dalle testimonianze, ha un valore molto
subordinato o nullo nel caso molto frequente in cui le testimonianze non siano
suffragate da alcun documento.
Ciò è del resto
ammesso anche da storici olocaustici, come Mathias Beer:
«Tuttavia allo storico
non è permesso adottare le sentenze dei tribunali senza averle esaminate,
perché la giustizia e la storiografia perseguono fini differenti. Per lui le
testimonianze sono importanti anzitutto perché lo aiutano a colmare le lacune
delle fonti. Ma le testimonianze, per la loro peculiarità, possono essere
trattate sullo stesso piano [delle fonti], ad esempio come documenti, ed
essere utilizzate proficuamente dalla ricerca storica, soltanto se vengono
rispettati determinati princìpi. Il presupposto fondamentale è di non
rinunciare, per quanto è possibile, al confronto tra le dichiarazioni e i
documenti di cui siano state esaminate criticamente le fonti, cioè a collegare
sempre il fatto probabile con quello certo. [Ma] anche così non si può
rispondere in modo soddisfacente a ogni domanda».
Per spiegare questa
posizione bisogna esaminare come e perché è nata la storiografia olocaustica.
La storia dei “campi di sterminio” e delle “camere a gas” fu notoriamente inventata già
durante la seconda guerra mondiale da uno stuolo di propagandisti, soprattutto
polacchi ed ebrei, che diffusero le storie orrorifiche più incredibili.
Nel
1945 il Governo polacco stilò un lungo rapporto ufficiale per il processo di
Norimberga, che fu presentato dai Sovietici come documento URSS-93. Un
paragrafo riguardava i “Campi di sterminio”. Riguardo a Belzec la relativa
Commissione era giunta a questi “accertamenti”:
«All'inizio del 1942 i primi rapporti
indicarono che in questo campo furono usate speciali installazioni elettriche
per la rapida uccisione in massa di Ebrei. Col pretesto di portarli a fare il
bagno, gli Ebrei venivano spogliati completamente e condotti in un edificio il
cui pavimento era elettrificato».
Su
Treblinka il rapporto dice che gli Ebrei «erano messi a morte in camere a gas,
mediante vapore e corrente elettrica». Per Sobibor afferma laconicamente che
«venivano uccisi in camere a gas», senza alcun accenno ai gas di scarico di
motori. Ad Auschwitz il rapporto attribuiva «milioni» di vittime, e asseriva che «a Majdanek furono uccisi
1.700.000 esseri umani». La cifra attuale delle vittime di questo campo è di
78.000.
La
storia delle “camere a vapore” di Treblinka fu oggetto di un altro rapporto ufficiale del Governo polacco. Esso
descriveva come segue il “capo d'accusa n. 6” contro Hans Frank:
«Le autorità tedesche operanti sotto
l'autorità del governatore generale dott.
Hans Frank istituirono nel marzo 1942 il campo di sterminio di
Treblinka, destinato all'uccisione in massa di Ebrei mediante soffocamento in
camere piene di vapore».
Il
rapporto, redatto il 5 dicembre 1945, era accompagnato da una certificazione
attestante che esso era stato «presentato dal
Governo polacco al Tribunale Militare Internazionale sotto le condizioni
esposte nell'Articolo 21 della Carta».
Su Sobibor, le commissioni
storiche ebraiche, che indagavano parallelamente alla magistratura polacca, raccolsero
testimonianze non meno strampalate.
Leon Feldhendler, dichiarò:
«Il bagno
era equipaggiato come se fosse davvero destinato a lavarsi (rubinetti per la
doccia, arredamento confortevole). I bagni erano locali di gasazione (gazowniami). Si gasavano 500 persone
contemporaneamente. A volte si rilasciava una corrente di cloruro (czasem puszczano
prąd chlorku), si provavano continuamente altri gas».
Zelda Metz asserì:
«Venivano
asfissiati col cloro (dusili chlorem).
Dopo 15 minuti erano tutti asfissiati. Attraverso una finestrella si verificava
se erano morti tutti. Poi il pavimento si apriva automaticamente. I cadaveri
cadevano in un vagone di una ferrovia che passava attraverso la camera a gas e
portava i cadaveri al forno».
Salomea Hanel
dichiarò parimenti che «i Tedeschi uccidevano con il cloruro (chlorkiem)».
Anche riguardo ad Auschwitz circolavano le storie
più assurde;
non mancavano quelle su impianti di folgorazione, come riguardo a Belzec. Il
23 ottobre 1942 il giornale clandestino Informacja bieżąca (Informazione
corrente), n. 39 (64), riferì le informazioni provenienti da un presunto
soldato SS impiegato «presso le camere
elettriche (przy komorach elektr.)»: ogni notte 2.500 vittime venivano «uccise
nel bagno elettrico (w łaźni elektrycznej) e in camere a gas».
“Camere elettriche” dotate di “pareti metalliche” sono menzionate anche in un rapporto del 18
aprile 1943. Un articolo dal titolo «Il complesso della morte ad
Auschwitz», redatto da Boris Poljevoi subito dopo la liberazione del campo e
apparso sulla Pravda il 2 febbraio 1945, faceva eco a queste fabntasticherie,
parlando di un «nastro trasportatore
elettrico (eljektrokonvjeijera) dove erano stati uccisi centinaia
di detenuti alla volta con la corrente elettrica (eljektriceskim tokom)».
Questa propaganda menzognera, previamente filtrata
e rinvigorita dalle varie “commissioni di inchiesta” sovietiche,
polacco-sovietiche e polacche e dagli “accertamenti” di giudici istruttori,
entrò nelle aule dei Tribunali Militari, uscendone con la nuova veste di “verità giudiziaria”.
In questo processo, l'elemento decisivo fu senza dubbio la “Dichiarazione delle Nazioni
Unite” del 17 dicembre 1942, che da un lato
promosse la propaganda a verità ufficiale, dall'altro,
sancì il criterio della punizione, ponendo le
basi per la costituzione dei futuri Tribunali Militari:
«Da
tutti i paesi occupati gli Ebrei vengono trasportati in condizioni di
spaventoso orrore e brutalità nell'Europa orientale. In Polonia, che è
diventata il principale mattatoio nazista, i ghetti istituiti dagli invasori
tedeschi vengono sistematicamente svuotati di tutti gli Ebrei, ad eccezione di
operai altamente specializzati richiesti dalle industrie belliche. Di nessuno
dei deportati si è più sentito parlare.
Gli abili al lavoro vengono fatti lavorare fino a una morte lenta in campi di
lavoro. I malati vengono lasciati morire di assideramento o di fame, o sono
massacrati deliberatamente in esecuzioni di massa.
Il numero delle vittime di queste crudeltà
sanguinose è stimato a parecchie centinaia di migliaia di uomini, donne e
bambini del tutto innocenti».
La Dichiarazione si concludeva con la minaccia che le Nazioni
Unite «ribadiscono la loro solenne decisione di far sì che i responsabili di
questi crimini non sfuggano alla punizione e di perseguire con le necessarie
misure pratiche questo fine».
Il progetto della Dichiarazione era stato discusso al Foreign
Office, a Londra, fin dall'inizio di dicembre, dopo l'arrivo di molti
rapporti propagandistici, l'ultimo dei quali,
quello di Jan Karski (che conteneva, tra l'altro, la favola dello
sterminio ebraico a Belzec mediante treni cosparsi di calce viva), era
giunto il 25 novembre.
Una nota del 1° dicembre informa:
«Sterminio di Ebrei in
Europa.
Il sig. Law riporta una conversazione
col sig. Silverman e col sig. Easterman
riguardo allo sterminio di Ebrei in Europa. Il sig. Silverman ha insistito perché il Governo di
Sua Maestà intraprenda qualche azione per alleviare queste atrocità e ha
suggerito che sia presentata dalle Nazioni Unite una dichiarazione delle
Quattro Potenze la quale proclami che gli esecutori saranno debitamente puniti
e anche che bisognerebbe fare trasmissioni radio per incoraggiare i non Ebrei
ad aiutare gli Ebrei perseguitati».
In una nota manoscritta,
David Allen, un funzionario del Central Department, consigliava che la
dichiarazione «in assenza di prove più chiare, dovesse evitare anche uno
specifico riferimento al piano
di sterminio», ma doveva limitarsi a condannare
«la politica tedesca» nei confronti degli Ebrei.
Un altro funzionario del Foreign Office, Frank Roberts, rilevò al
riguardo:
«Una dichiarazione secondo
le direttive summenzionate dovrebbe essere piuttosto vaga, perché non abbiamo
nessuna prova reale di queste atrocità (since
we have no actual proof of these atrocities), sebbene, penso, la loro
probabilità è sufficientemente grande da giustificare un'azione secondo le
direttive summenzionate, se ciò è considerato essenziale al fine di soddisfare
l'opinione parlamentare qui. I propagandisti potrebbero poi fare
dichiarazioni secondo le direttive
summenzionate come di loro iniziativa. Senza una tale dichiarazione, a mio
avviso, sarebbe pericoloso imbarcarsi in una campagna propagandistica senza il
fondamento di fatti citabili e comprovati».
L'atto che istituiva i futuri Tribunali Militari alleati non si
fondava dunque su alcuna «prova reale», ma su una mera «probabilità» delle «atrocità» tedesche. Ma
ormai le Nazioni Unite si erano
impegnate davanti al mondo intero, sicché i loro Tribunali dovevano
“dimostrare” in qualunque modo i “crimini” tedeschi.
Quale fosse l'amore di giustizia e di verità di questi
Tribunali, lo disse esplicitamente Justice Jackson, il pubblico ministero capo americano, alla
seduta del 26 luglio 1946 del processo di Norimberga:
«Interpretando la Carta,
non dovremmo comunque trascurare il carattere unico ed emergente di questo
istituto come Tribunale Militare Internazionale. Esso non è parte del
meccanismo costituzionale giudiziario interno di nessuna delle Nazioni
firmatarie. La Germania si è arresa
senza condizioni, ma non è stato firmato o concordato alcun trattato di pace.
Gli Alleati si trovano tecnicamente ancora in stato di guerra con la Germania,
sebbene le istituzioni politiche e militari del nemico siano crollate. Come
tribunale militare, questo tribunale costituisce la continuazione dello sforzo bellico delle
Nazioni Alleate. Come Tribunale Internazionale, esso non è legato alle
raffinatezze dei nostri rispettivi sistemi giudiziari o costituzionali, e
le sue decisioni non introdurranno precedenti nel sistema giudiziario civile
interno di alcun paese»
(corsivo mio).
La Carta del Tribunale Militare
Internazionale menzionata sopra diceva esplicitamente che esso veniva
costituito non allo scopo di accertare la verità o per fare giustizia, ma «per
il giusto e pronto
processo e per la
punizione dei maggiori criminali
di guerra dell'Asse europea»
(corsivo mio).
Al fine di ottenere questo
risultato, i vincitori della guerra crearono strumenti giuridici appropriati.
L'articolo 19 dello Statuto del Tribunale sanciva:
«Il Tribunale non sarà
legato alle regole tecniche di prova. Esso adotterà e applicherà nel modo più
ampio possibile una procedura rapida e non tecnica e ammetterà qualunque prova
che riterrà avere valore probativo».
E l'articolo 21 affermava:
«Il Tribunale non
richiederà la prova di fatti di comune conoscenza, ma ne prenderà judicial
notice.
Esso prenderà judicial notice anche di documenti governativi ufficiali e
di rapporti delle Nazioni Unite, inclusi gli atti e i documenti dei comitati
istituiti nei vari Paesi alleati per indagare sui crimini di guerra e documenti
o reperti di Tribunali militari o di altro tipo di tutte le Nazioni Unite».
Per completare l'opera, i documenti per i processi
erano stati previamente selezionati in funzione dell'accusa.
Alan J.P. Taylor descrisse mirabilmente
questa situazione per spiegare «il consenso quasi universale tra gli storici»
sulle origini della seconda guerra mondiale, ma ciò vale anche per le origini
della storiografia olocaustica:
«La documentazione in eccesso è quella che
fu raccolta per i processi contro i criminali di guerra a Norimberga. Si tratta
di documenti che, per imponenti che sembrino nei loro innumerevoli tomi,
costituiscono un materiale pericoloso a usarsi da parte dello storico. [...].
I documenti furono scelti non
soltanto per dimostrare la colpevolezza degli uomini allora sotto processo, ma
anche per nascondere la colpevolezza delle potenze accusatrici. [...]. Il
verdetto precedette il processo e i documenti furono addotti per sostenere una
conclusione già stabilita».
Raginald T. Paget, che difese il
feldmaresciallo Erich von Manstein, descrisse in quale situazione si trovavano
i difensori degli imputati tedeschi. Nel luglio 1945 fu costituita una sezione
speciale dell'esercito americano col compito di raccogliere, analizzare e
ordinare il materiale di prova tedesco per l'accusa nell'ambito dei processi
militari. I documenti selezionati furono mandati a Washington per essere
vagliati di nuovo al fine di accertare se contenessero materiale di prova
utilizzabile dall'accusa. I documenti così riselezionati furono fotocopiati e messi
a disposizione dei tribunali. La difesa doveva scegliere i propri documenti tra
questi.
Il 20 novembre 1945 il colonnello Robert G.
Storey, consigliere amministrativo degli Stati Uniti al processo di Norimberga,
presentò al Tribunale un affidavit del maggiore William H. Coogan nel quale espose le procedure di raccolta e
elaborazione dei documenti tedeschi:
«A partire dallo scorso giugno, il sig. Justice Jackson mi ha chiesto di dirigere la
raccolta di materiale di prova nel Continente per il processo degli Stati
Uniti. Dal nostro ufficio furono organizzati gruppi mobili sotto la direzione
del maggiore William H. Coogan, che ha
istituito nei centri principali di documenti dell'Esercito ufficiali di
collegamento statunitensi che parlavano tedesco. Questi ufficiali avevano
l'ordine di vagliare e analizzare la massa di documenti catturati e di
selezionare quelli che avessero valore probatorio per il nostro processo. Sono
state vagliate e analizzate letteralmente centinaia di tonnellate di
documenti e atti nemici e quelli
selezionati sono stati inoltrati a Norimberga per l'elaborazione. Presento
come prova un affidavit del maggiore
Coogan datato 19 novembre 1945, allegato a questo, che descrive il
metodo di cattura, cernita e consegna di tali documenti a Norimberga. Dopo che
i documenti, selezionati grazie alla summenzionata procedura di cernita, hanno
raggiunto il nostro ufficio, sono stati riesaminati, rivagliati e tradotti da
personale esperto statunitense, molti
membri del quale sono nati in Germania e sono perciò in possesso di
qualificazioni linguistiche e culturali eccellenti. Alla fine, sono stati
selezionati e presentati qui al palazzo
di Giustizia più di 2.500 documenti. Almeno diverse centinaia sono addotti come
prova. Essi sono stati fotografati, tradotti in inglese, archiviati,
forniti di indici e sistemati. L'affidavit del maggiore Coogan descrive parimenti questa procedura»
(corsivo mio).
Il maggiore Coogan confermò:
«La squadra mobile della Sezione
Documentazione è costituita da personale
che conosce a fondo la lingua tedesca. Il loro compito era la ricerca e la
selezione di documenti nemici catturati nel Teatro europeo che rivelassero
informazioni relative all'accusa contro i maggiori criminali di guerra
dell'Asse»
(corsivo mio).
Nelle aule dei tribunali il
presunto sterminio ebraico, soprattutto riguardo a “campi di sterminio” e
“camere a gas”, divenne subito un «fatto
di comune conoscenza» di cui bisognava semplicemente prendere «judicial
notice», vale a dire un dogma
indiscutibile. La strategia difensiva degli imputati vi si adattò senza bisogno
di pressioni. In tale contesto, la “confessione” era molto più remunerativa di
una “negazione”, che avrebbe solo inasprito la pena per il malcapitato, perché
sarebbe stato inevitabilmente giudicato un nazista incallito e impenitente. I
testimoni dell'accusa, comprensibilmente esacerbati per le sofferenze che
avevano patito a causa del regime nazionalsocialista,
si precipitarono a reclamare la loro vendetta. I Tribunali si mostrarono
estremamente comprensivi nei loro confronti, garantendo loro di fatto la totale
impunità. Tra le migliaia di testimoni che deposero in decine di processi, non
risulta infatti che uno solo sia stato incriminato per falsa testimonianza,
sebbene molti avessero fatto dichiarazioni palesemente false e assurde.
Il caso del processo Belsen è emblematico a questo riguardo. Fu il
primo processo importante del dopoguerra e fu celebrato dai Britannici dal 17
settembre al 17 novembre 1945. Il maggiore imputato, l'SS-Hauptsturmführer
Josef Kramer, era stato comandante del KL Auschwitz-II, Bireknau, dall'ottobre
1942 al maggio 1944, poi comandante del campo di Bergen-Belsen. Per questo
motivo il processo si occupò anche di Auschwitz. Nella sua prima dichiarazione,
Kramer aveva dichiarato ingenuamente la verità:
«Ho sentito parlare di accuse
di ex prigionieri di Auschwitz relative a una camera a gas lì, di esecuzioni in
massa e di frustate, di crudeltà delle guardie impiegate, e che tutto ciò
avvenne o in mia presenza o a mia conoscenza. Tutto ciò che posso dire al
riguardo, è che è tutto falso dall'inizio alla fine».
Ma ben presto egli si rese conto della funzione ideologica e
politica del processo. L'unica strategia difensiva ammissibile era la piena adesione al dogma delle “camere a
gas”, e anche il suo avvocato non poté
fare altro che accettarlo:
«Le camere a gas sono esistite, non c'è alcun dubbio su ciò».
«Era chiaro che migliaia di persone erano state uccise nelle camere
a gas di Auschwitz...».
Perciò nel corso del dibattimento Kramer dovette ritrattare. Qui
fece la sua apparizione la strategia che
divenne poi una regola della difesa: l'imputato “sapeva”, ma non era
direttamente “responsabile”. Nel caso
specifico, Kramer dichiarò:
«Ricevetti un ordine scritto da lui [Rudolf Höss] secondo il
quale non avevo nulla a che fare né con le camere a gas, né con i trasporti che
arrivavano».
Il processo Belsen è emblematico anche per quanto riguarda le
testimonianze di ex detenuti. Sebbene il corpo della difesa fosse costituito da
undici ufficiali britannici e uno polacco, essi non poterono fare a meno di
sottolineare più volte l'inattendibilità dei testimoni:
«Sto sostenendo che l'intero incidente è immaginario» (su A. Bimko).
«Affermo che il vostro racconto, qui, oggi, è esagerato e
falso. [...]. Suggerisco che la stessa
cosa vale per il resto della vostra testimonianza e che siete una testimone del
tutto inaffidabile» (su S. Liwinska).
«Io vi dico che questo incidente avvenne soltanto nella vostra
immaginazione e che tutta la cosa è un tessuto di menzogne» (su D. Szafran).
«Noi ci opponiamo a tutti questi affidavit che sono contenuti
in questo libro e altrove, che vengono presentati alla Corte come prove. A nostro giudizio tutte le deposizioni
contenute in questo libro sono completamente inattendibili e invitiamo la
Corte, dopo aver considerato le dichiarazioni, che si trovano nel libro, di
quei testimoni che hanno già fatto la deposizione, di giudicare da esse e dire
che le restanti non dovrebbero essere accettate dalla Corte perché sono del
tutto inconsistenti e di valore così esiguo che la Corte non dovrebbe allontanarsi
in modo così enorme da ciò che è la normale pratica delle Corti penali e delle
Corti marziali generali».
«L'avvocato ha chiesto alla Corte di considerare la storia di Bimko
e Hammermasch con riferimento
all'uccisione dei quattro Russi come pura invenzione delle due testimoni che
sono apparse in rapida successione in aula al solo scopo di aggredire
verbalmente Kramer, il loro ex comandante, e che inoltre proprio per questo
motivo queste due testimoni lo hanno accusato di aver preso attivamente parte alle selezioni ad
Auschwitz».
«L'avvocato ha affermato che questo testimone è venuto in aula e ha
fatto quest'accusa furibonda contro Kramer senza alcun riguardo per la verità
[...]. L'avvocato ha chiesto alla Corte di accettare la storia di Kraft in
toto e di rigettare la descrizione di
Sompolinski del campo n. 2, che non può essere sensatamente considerata
una descrizione veritiera».
«Il maggiore Munro ha
asserito che l'intera storia è pura assurdità...» (su H. Klein).
«L'intera storia è fantastica» (su C.S. Bendel).
«Ciò che Litwinska ha detto è
inconcepibile quando venga confrontata con la deposizione del dott. Bendel. A
giudizio dell'avvocato, ella ha anzitutto sentito dalla sua amica Bimko ciò che
lei, Bimko, ha visto quando ha esaminato la camera a gas; poi ha udito la
storia della ragazza che era stata salvata dalla camera a gas da Hoessler e ha messo insieme le due cose
creando questa storia stupida e irreale».
Non era difficile individuare la radice di tutte queste menzogne:
l'odio e il desiderio di vendetta.
«I nazisti hanno suscitato una passione razziale in tutto il mondo
ed io non credo che sia anormale o sorprendente che queste giovani ebree siano
vendicative verso i loro ex guardiani o che cerchino di vendicarsi di loro».
Mi sono soffermato a lungo sul processo Belsen perché illustra
perfettamemte il clima che regnava all'epoca, i dogmi della Corte, le strategie
della difesa, le motivazioni dei testimoni.
Attraverso una poderosa
mobilitazione dei mezzi di informazione,
i dogmi giudiziari divennero presto
una atmosfera mediatica che
permeava e alimentava tutte le parti in causa, giudici e testimoni, ex detenuti
ed ex SS, giornalisti e “opinione pubblica”.
Ciò che gli avversari del
revisionismo chiamano “teoria del complotto” è in realtà
quest'atmosfera onnipervadente: tutte le parti in causa si trovarono a
sostenere, per ragioni diverse, il dogma delle “camere a gas”, non già in virtù
di un complotto, ma perché questa era ormai la “verità” giudiziaria e mediatica
indiscutibile. Per quanto riguarda i testimoni, non c'è affatto bisogno di
presupporre che fossero tutti dei mentitori intenzionali; la cerchia di questi
è numericamente insignificante. La stragrande maggioranza dei testimoni si
limitò semplicemente a ripetere e ad
abbellire ciò che aveva ascoltato da altre fonti, in un processo che
David Irving ha chiamato “impollinazione incrociata”. Altri hanno interpretato
eventi di cui ignoravano il significato alla luce delle “conoscenze”
successive, in una sorta di autoillusione ben descritta da Valentina Pisanty:
«Spesso
gli scrittori [cioè i testimoni] intrecciano le proprie osservazioni
dirette con frammenti di “sentito dire” la cui diffusione nel lager era capillare.
La maggior parte delle inesattezze riscontrabili in questi testi è attribuibile
alla confusione che i testimoni fanno tra ciò che hanno visto con i propri
occhi e ciò di cui hanno sentito parlare durante il periodo dell’internamento.
Con il passare degli anni, poi, alla memoria degli eventi vissuti si
aggiunge la lettura di altre opere sull’argomento, con il risultato che le
autobiografie stese in tempi più recenti perdono l’immediatezza del ricordo
in favore di una visione più coerente e completa del processo di sterminio»
(corsivo mio).
A partire dall'inizio degli
anni Cinquanta, la nascente storiografia
olocaustica, grazie a personaggi come
Léon Poliakov, Gerald Reitlinger, Lord Russell of Liverpool, Artur Eisenbach,
Filip Fridman ed altri, fece uscire dai
tribunali la “verità giudiziaria” e cominciò a trasformarla gradualmente in
“verità storica”. I processi precedenti alimentarono quelli successivi in una
perversa spirale che ad ogni nuova sentenza consolidava la “verità
giudiziaria” che era già presupposta fin dall'inizio. E la nuova “verità
giudiziaria” consolidava a sua volta la “verità storica”. I numerosi processi
celebrati nella ex Repubblica Federale Tedesca, più che ad amministrare la
giustizia, mirarono soprattutto a puntellare la storiografia olocaustica.
Alcuni imputati, come Wilhelm Pfannenstiel, ne furono consapevoli sponsor e
furono adeguatamente retribuiti con un non luogo a procedere.
Un libro come “NS-Verbrechen
vor Gericht” (Crimini nazionalsocialisti davanti al Tribunale) di Adalbert
Rückerl,
un magistrato con velleità storiografiche,
mostra visivamente la dipendenza della storiografia olocaustica dalla
“storiografia giudiziaria” inaugurata dai Tribunali Militari alleati, che è
come il terreno sul quale essa è germogliata.
Due storici tedeschi,
Morsch e Perz, in un'opera fondamentale sulla quale ritornerò alla fine di
queste annotazioni, dichiarano
candidamente:
«Senza l'attività
investigativa di istituzioni giuridiche come la Commissione centrale polacca di
Varsavia o la Zentrale Stelle der Landersjustizverwaltungen di
Ludwigsburg, la ricerca storica sulle uccisioni in massa mediante gas tossico
oggi diventerebbe molto difficile».
Si aggiunga che, di norma,
questi processi non giunsero a stabilire neppure una “verità giudiziaria”
ineccepibile. Il caso del processo Auschwitz di Francoforte (20 dicembre
1963-20 agosto 1965) è rappresentativo a questo riguardo. Nella motivazione
della sentenza i giudici stabilirono quanto segue:
«Oltre a pochi documenti e
non molto utili, a disposizione del Tribunale, per la ricostruzione delle
azioni degli imputati, c'erano quasi esclusivamente testimonianze. La
criminologia insegna che le testimonianze non appartengono al novero dei mezzi
di prova migliori. Ciò tanto più se la
dichiarazione dei testimoni si riferisce a fatti che sono stati osservati dai
testimoni venti o più anni prima in uno
stato indicibile di pena e di sofferenza. Perfino il testimone ideale, che
vuole dire soltanto la pura verità e si sforza di vagliare i suoi ricordi, è
soggetto dopo vent'anni ad alcune lacune di memoria. Egli incorre nel pericolo
di proiettare su altre persone cose che ha realmente sperimentato e di
interpretare come propria esperienza cose che gli sono state raccontate molto
drasticamente in quest'ambiente. Per questa via egli corre però il rischio di
scambiare tempo e luogo nei suoi ricordi. [...].
Al contrario, bisogna tenere presente quale immenso lavoro minuzioso
viene effettuato in un processo per omicidio dei nostri giorni, come sulla base
di piccole tessere di mosaico si ricomponga il quadro di ciò che è realmente
accaduto al momento dell'omicidio. Il Tribunale ha a disposizione anzitutto il cadavere, il protocollo di
autopsia, la perizia del perito sulle cause della morte e sul giorno nel quale
essa dev'essere avvenuta, l'azione che ha portato alla morte della persona in
questione. Esso ha a disposizione l'arma
del delitto, le impronte digitali che identificano il colpevole, ha a disposizione
le impronte delle scarpe che egli ha lasciato quando è entrato nella casa della
vittima e ci sono ancora molti particolari che danno al Tribunale
l'indispensabile certezza che quest'uomo è stato assassinato da un ben
determinato colpevole. Tutto ciò manca in questo processo»,
cioè nel processo Auschwitz; la situazione dei vari processi sui
“campi di sterminio” orientali è ancora peggiore, perché lì non c'erano
neppure i “pochi documenti e non molto utili”.
Già da questo quadro
sommario risulta evidente che la storiografia olocaustica non ha nulla a che
vedere con la normale storiografia. Le altre branche di essa, ad esempio quella
medievale, non sono scaturite dalle aule di tribunali militari
per punire un colpevole. Solo quella olocaustica rappresenta un'anomalia
palese. L“unicità” dell'Olocausto è perfettamente vera, ma solo con riferimento
alla relativa storiografia. È la storiografia olocaustica che è “unica”, e ciò
è dimostrato dal fatto che essa è l'unica considerata in molti Stati, per
legge, intangibile, una sorta di Verità metafisica che nessuno può toccare,
pena la galera. I politici che hanno approvato le leggi antirevisionistiche
hanno confermato in tal modo che la storiografia olocaustica ha una natura
essenzialmente ideologica e politica che va protetta per via legale. Ma nessuno
ha mai chiesto leggi contro i “negatori”, ad esempio, di questo o quell'aspetto
della storia medievale.
Nel quadro di questa storiografia ideologica, dove
ogni fonte extra-documentaria è inficiata fin dall'origine dagli scopi e dalle
procedure dei Tribunali Militari, stupisce molto che il revisionismo
attribuisca valore probatorio eslusivamente ai documenti e rigetti le
testimonianze?
Ma perfino su ciò ci sarebbe da discutere. La raccolta e la cernita dei documenti
tedeschi effettuata dai vincitori della seconda guerra mondiale rappresentarono anch'esse
la «continuazione dello sforzo bellico delle Nazioni
Alleate» contro la Germania; fu infatti eseguita al solo scopo di
individuare materiale per la «punizione» di crimini la cui realtà era
presupposta a priori.
Anche per questo verso
la storiografia olocaustica è unica. Tutti i documenti preselezionati ed
esibiti nei vari processi sono documenti dell'accusa; la difesa avrebbe dovuto
cercare i propri documenti tra di essi, sicché, in via di principio, non
esistono documenti della difesa. Più in generale, l'intero materiale d'archivio
attualmente disponibile è solo una documentazione d'accusa. Dei poveri
olo-blog-dementi a suo tempo ironizzarono sul fatto che Jürgen
Graf ed io, negli archivi orientali, non trovammo documenti sulla destinazione
degli Ebrei che, a nostro avviso, furono trasferiti all'Est dai presunti “campi
di sterminio”. Se si considera che questi archivi constano di documentazioni
raccolte dai Sovietici, si può sperare seriamente di trovarvi documenti di tal
fatta?
Questo punto fondamentale della questione è ormai documentariamente insolubile,
qualunque sia la prospettiva da cui si esamina: se i “campi di sterminio” sono
esistiti, i nazionalsocialisti hanno distrutto la relativa documentazione sulle
“camere a gas” e gli stermini; se i “campi di sterminio” non sono esistiti, i
Sovietici hanno distrutto la relativa documentazione su trasferimenti e
reinsediamenti. In questo dilemma, la prospettiva olocaustica ha lo svantaggio
di dover dimostrare la realtà di “camere a gas” e stermini senza documenti,
ricorrendo esclusivamente a
“testimonianze” e “confessioni”, le quali, come ho spiegato sopra, senza un
valido riscontro documentario, dal punto di vista di questa storiografia
anomala, non valgono nulla, senza
contare le contraddizioni e le assurdità prodigiose che contengono e
soprattutto le impossibilità materiali delle procedure di sterminio, che le
destituiscono radicalmente di ogni realtà.
Tuttavia, sebbene questo dilemma sia effettivo, la
posizione revisionistica è più ragionevole. È noto infatti che i Tedeschi hanno
lasciarono un quantitativo cospicuo di documenti relativi alle fucilazioni di
Ebrei soprattutto nei territori orientali, documenti che parlano un linguaggio
schietto e crudo. Perché allora avrebbero dovuto distruggere sistematicamente
tutti i documenti relativi ai “campi di sterminio” orientali (Belzec, Sobibor e
Treblinka) e a Chelmno? Questa distruzione “settoriale” di documenti non ha senso. Né si può credere seriamente
che i documenti sulle fucilazioni operate soprattutto dagli Einsatzgruppen
si salvarono per un caso fortuito (ma in
tale eventualità si tratterebbe di una vera moltitudine di casi fortuiti), come
ipotizzò insensatamente Jean-Claude Pressac per gli archivi della Zentralbauleitung
di Auschwitz, che furono lasciati dalle SS praticamente intatti ai Sovietici.
Si sa con certezza che i nazionalsocialisti avevano direttive ben precise per
la distruzione di documenti per loro importanti, come risulta da numerosi
dossier che si trovano nell'Archivio Storico Militare di Praga. I
documenti classificati “geheime Sache” (segreto di Stato) e “geheime
Reichssache” (affare segreto del Reich)
appartenenti all'Einsatzgruppe VII dell'Organisation Todt
furono distrutti fin dal gennaio 1945 per ordine superiore e fu redatto un “protocollo di distruzione” (Vernichtungsprotokoll) con elenco dettagliato di tutti i
documenti distrutti.
Ma riguardo ai presunti campi di sterminio orientali non sono stati trovati neppure questi
protocolli. La conclusione è che, in pratica, non si sa affatto quale materiale
documentario i nazionalsocialisti
abbiano realmente distrutto e quale i Sovietici abbiano realmente
trovato.
Il compito e la funzione essenziale del
revisionismo non è di “negare” presunte installazioni o eventi, ma di vagliare
e verificare questa storiografia ideologica. Da un punto di vista strettamente
metodologico, il problema fondamentale non è neppure se le “camere a gas” sono
esistite o non sono esistite, ma se le prove addotte dalla storiografia olocaustica
sono fondate o infondate. Dal punto di vista storico ci interessa,
positivamente, ciò che accadde realmente, e questo è il senso principale delle
nostre ricerche. Perciò non ha senso tacciarle di “negazionismo”.
Siamo anche inclini a credere che la propaganda di
guerra sublimata prima in “verità giudiziaria” e divenuta poi universale
atmosfera di “verità storica” e mediatica, influenzi pesantemente la maggior
parte degli storici olocaustici, che pertanto consideriamo in generale in buona
fede, per lo meno riguardo alla loro visione storica complessiva, anche se a
volte essi creano, come Raul Hilberg, un evidente tessuto di menzogne
intenzionali.
Tuttavia, non c'è dubbio che, al suo
sorgere, questa storiografia fu animata
da opportunismo e malafede. Nonostante
le «centinaia di tonnellate di documenti e atti nemici» esaminati soltanto
dagli Americani in vista dei grandi
processi del dopoguerra, nei 72 volumi
delle tre raccolte processuali più importanti,
come ha osservato giustamente Samuel
Crowell, sulle presunte camere a gas fisse vi erano appena tre
documenti, due su Auschwitz e uno su Gross-Rosen: NO-4473, NO-4465 e NO-4345.
Uno, la ben nota lettera dell'SS-Hauptsturmführer Karl Bischoff del 29
gennaio 1943, conteneva un errore di traduzione, in quanto il termine “Vergasungskeller”
(scantinato di gasazione)
veniva reso con “camera a gas” (gas chamber);
il secondo, la lettera della Zentralbauleitung di Auschwitz del 31 marzo
1943, un errore ancora più grave, perché il termine “Türme” (torri),
errore di battitura per “Türen” (porte), veniva tradotto con “camere a
tenuta di gas” (gas-dicht chambers);
l'ultimo recava una grossolana falsificazione, perché nella lettera della ditta Tesch und Stabenow
del 25 agosto 1941 al campo di Gross-Rosen faceva diventare “due camere di
sterminio” (two extermination chambers) le
due camere di disinfestazione con sistema Degesch-Kreislauf che erano
state ordinate a questa ditta dalla locale Bauleitung
.
La successiva lettera di questo ufficio allo Hauptamt Haushalt und Bauten
del 28 agosto, che si richiama alla lettera summenzionata, ha come oggetto,
appunto, “impianto di
disinfestazione” (delousing plant)!
Su Belzec si fantasticava di impianti di folgorazione e su Treblinka di “camere a vapore” e anche
di impianti di estrazione dell'aria.
Su Chelmno e Sobibor non si sapeva
praticamente nulla. Nonostante ciò, nessuno storico fu mai sfiorato dal minimo
dubbio che la storia delle “camere a gas” potesse essere infondata. Al pari dei
Tribunali, essi la assunsero aprioristicamente come un «fatto di comune conoscenza», un
fatto certo che non bisognava discutere,
ma solo dimostrare. E dopo quasi settant'anni non ci sono ancora riusciti.
III - Il tracollo della “verità storica” incontrovertibile sulle
“camere a gas”
Nel 2008 si è tenuto a Oranienburg, in Germania, un
convegno storico internazionale i cui atti sono stati pubblicati solo nel 2011,
in un volume di oltre 400 pagine, il già citato Neue Studien zu nationalsozialistischen Massentötungen durch Giftgas.
Historische Bedeutung, technische Entwicklung, revisionistische Leugnung.
Lo scopo del convegno era da un lato di esporre i risultati della più recente
ricerca olocaustica sul tema delle “camere a gas”, dall'altro di esporre una
critica del revisionismo. Esso ha segnato il tracollo definitivo della
storiografia olocaustica, come ho dimostrato nel mio studio Schiffbruch. Vom
Untergang der Holocaust-Orthodoxie (Naufragio. Dell'affondamento
dell'ortodossia olocaustica),
di cui riporto gli estratti più significativi della conclusione:
«L’opera
“Neue Studien zu nationalsozialistischen
Massentötungen durch Giftgas” vuole confutare il revisionismo ribadendo le
verità olocaustiche e ribadire le verità olocaustiche confutando il
revisionismo. Questi due aspetti, critico e costruttivo, si intersecano spesso in vari contributi, ma
al secondo è riservata in modo specifico l’ultima parte del libro.
L’aspetto costruttivo, nonostante gli aggiornamenti più
recenti delle fonti, ha ben poco a che vedere con una trattazione
scientifica, ma rappresenta piuttosto l’esposizione degli articoli di fede di
una nuova dogmatica storiografica. In essa non esiste nessuna prova ma, per i
misteri di questa fede, tutto è dimostrato. In realtà il problema fondamentale,
la genesi e lo sviluppo delle camere a gas omicide, da quelle ad ossido di
carbonio dei centri di eutanasia, ai “Gaswagen”
di prima e seconda generazione, a quelle
a gas di scarico di un motore, a quelle a Zyklon B, resta irrisolto come prima
e a nulla vale, sul piano storiografico, la concatenazione di eventi
fittizi creata dai partecipanti sulla
base di mere testimonianze, contraddittorie e estrapolate.
L’altro problema
essenziale, quello del Führerbefehl,
l’ordine di sterminio ebraico, non è neppure sfiorato dai congressisti; esso è
tacitamente, o meglio, dogmaticamente presupposto, sicché essi mettono in campo
camere a gas per uno sterminio che non si sa da chi, quando e perché sarebbe
stato ordinato.
Il terzo problema importante, quello della scelta dei sistemi
di uccisione, resta ancora avvolto nella nebbia: la scelta dell’ossido di
carbonio in bombole per gli istituti di eutanasia, il ricorso al gas di scarico
di motori Diesel e a benzina per i campi dell’“azione Reinhardt”, l’impiego di
Zyklon B per Auschwitz e altri campi, l’uso di Gaswagen a Chelmo, in Serbia e dietro il fronte russo, nonostante
lo sforzo da parte di questi storici di creare tra questi procedimenti così
differenti relazioni fittizie (gli interventi dell’Istituto tecnico-criminale,
il convegno di Sachsenhausen), restano del tutto slegati, come iniziative
locali senza alcuna coordinazione superiore, ma connesse a tre diverse catene
di comando che avrebbero agito ciascuna per proprio conto. Sul piano metodologico, pretendere di dimostrare
qualcosa senza alcuna prova documentaria e spesso senza neppure alcun reperto
materiale, basandosi esclusivamente su testimonianze opportunamente
selezionate, rivela un’accentuata
tendenza alla credulità e al
fideismo e nello stesso tempo una preoccupante carenza di formazione
scientifica.
Anche gli articoli degni di attenzione sono in effetti
superficiali e frettolosi, quasi sempre privi di riferimento alle fonti,
semplici compilazioni di testi letterari che si citano l’un l’altro in un
circolo vizioso futile e inestricabile.
La
situazione è identica per le presunte camere a gas di Ravensbrück e
Neuengamme. A Lublino-Majdanek e a Stutthof inequivocabili camere a gas di
disinfestazione vengono spacciate per camere a gas omicide, ma senza la minima
prova documentaria per quest’uso omicida, e ciò vale anche per Sachsenhausen e Mauthausen.
Per Auschwitz la questione è diversa. Le prove della
presenza in tale campo di camere a gas omicide mancano ugualmente, ma sono in
parte rimpiazzate da “indizi criminali” non meno fittizi. In parte, perché
anche qui l’origine delle camere a gas resta del tutto indimostrata. [...].
L’ultima
parte dell’opera, quella dedicata in modo particolare alla confutazione del
revisionismo, pomposamente intitolata “La
‘menzogna delle camere a gas’ nella propaganda revisionistica internazionale”,
è senza dubbio la più inconsistente dal punto di vista argomentativo, ma anche
la più deludente. L’impressione che suscita è quella di un semplice “atto
dovuto”, privo di profondità, di serietà, di impegno, un atto puramente formale
per soddisfare in modo fittizio un’ esigenza – la replica al revisionismo – cui
i congressisti non erano in grado di
sopperire in modo reale. Il suo unico pregio, nella prospettiva editoriale, è
quello di gonfiare artificiosamente la mole del libro, insieme a molti altri
contributi di pari livello.
A
Norimberga le storie dell'impianto di folgorazione a Belzec, delle camere a vapore di Treblinka,
delle 1.700.000 vittime di Majdanek, delle 4 milioni di vittime di Auschwitz,
ecc. ecc., furono presentate in documenti governativi ufficiali di cui il
Tribunale, secondo l'articolo 21 dello Statuto, doveva semplicemente prendere “judicial
notice”. Ma ciò vale anche per il massacro di Katyn, sul quale fu
esibito parimenti un documento governativo ufficiale, il lungo rapporto della
Commissione sovietica speciale del 24 gennaio 1944, ammesso dal Tribunale come
documento URSS-054:
esso pretendeva che gli sventurati ufficiali polacchi erano stati fucilati dai
Tedeschi.
Sarà
vietato “negare” anche queste “verità storiche”, incontrovertibili come
tutte le altre “verità” olocaustiche?
Carlo Mattogno
http://www.senato.it/service/PDF/PDFServer/BGT/00680793.pdf
Effepi,
Genova, 2012.
Dokumenty i
materiały. Tom I, Obozy. Opracował mgr.
N. Blumental. Łódź, 1946, p. 204.
La deposizione risale al 1945 o 1946.
Idem, p. 211. Anche questa deposizione risale al 1945
o 1946.
Commissione storica ebraica di Cracovia, Dokumenty zbrodni i męczeństwa. Cracovia,
1945, p. 64
Obóz koncentracyjny Oświęcim w świetle akt Delegatury Rządu R.P. na Kraj (Il campo di concentramento di Auschwitz alla luce degli atti della
Delegatura del Governo della Repubblica polacca nel Paese). “Zeszyty Oświęcimskie” (Quaderni di Auschwitz), numero speciale I, Oświęcim 1968, p. 52.
Martin Gilbert, Auschwitz & the Allies. The
politics of rescue. Arrow Books Limited, Londra, 1984, p. 130
B.
Poljevoi, Kombinat smjerti v Osvjetzimje. Pravda, 2 febbraio 1945, p. 4.
Trial of the Major War Criminals before the
International Military Tribunal. Nuremberg, 14 November 1945 - 1 October 1946. Published at
Nuremberg, Germany, 1947 (d'ora in avanti: IMT), vol. XII, p. 364
Vedi
al riguardo C.
Mattogno, Bełżec. Propaganda, testimonianze, indagini archeologiche e
storia, op. cit., pp. 30-44.
Foreign Office papers, Fo371/30923 XP004257, p. 62
Sottolineato nell'originale
Foreign Office papers, Fo371/30923 XP004257, pp. 64-65
Foreign Office papers, Fo371/30923 XP004257,
pp. 66-67
IMT,
vol XIX, p. 398
Idem, vol. I, p. 10
IMT,
vol. I, p. 15
Il
significato è che «La corte dichiara, o accetta, che certi fatti sono ben noti
e non hanno bisogno di essere provati». Glossario della legalità americana,
in:
http://www.homolaicus.com/linguaggi/glossario_diritto_usa/letteraj.html
Idem
A.J.P.
Taylor, Le origini della seconda guerra mondiale. Editori Laterza, Bari, 1975, pp. 36- 37
R.T.
Paget, Manstein. Seine Feldzüge und sein Prozeß. Limes Verlag,
Wiesbaden, 1952, pp. 128-129
PS-001(a). IMT, vol. XXV, pp. 2-3
Idem, p. 5
Trial of Josef Kramer and Forty-Four Others (The Belsen Trial). Edited by Raymond Phillips. William Lodge and
Company, Limited. London, Edinburgh, Glasgow, 1949, p. 731
Idem, p. 150
Idem, p. 512. Entrambe le dichiarazioni furono fatte dal maggiore Winwood,
difensore di Kramer e di altri tre imputati
Idem, p. 157
Idem, p. 76
Idem, p. 82
Idem, p. 89
Idem, p. 141
Idem, p. 518
Idem,
p. 519
Idem, p. 524
Idem
The Belsen Trial, op. cit., p. 535. Ma anche la visita di A. Bimko alle
“camere a gas” è una «storia
stupida e irreale». Vedi il mio studio Le camere a gas
di Auschwitz. Effepi, Genova, 2009, pp. 544-546
The
Belsen Trial, op. cit., p. 244
V.
Pisanty, L'irritante questione delle camere a gas. Logica del negazionismo,
op. cit., p. 183.