Emanuela Irace: LADRI DI FUTURO, Libano e Siria tra guerra e pace

Emanuela Irace

Per gentile concessione dell'autrice, pubblichiamo questo articolo di Emanuela Irace che uscirà sul prossimo numero dell'edizione cartacea di NOIDONNE. Il sito di NOIDONNE è: http://www.noidonne.org/home.php

LADRI DI FUTURO, Libano e Siria tra guerra e pace

di Emanuela Irace

Incontro Kemal al “Che Guevara bar” di Beirut. Caffè storico della capitale libanese, luogo di ritrovo notturno dell’intellighenzia giovanile, che gravita attorno all’università americana e ai partiti laici di matrice marxista.   Ci sono cooperanti e giornalisti. Fotoreporter e libanesi.  Il quartiere è centrale,  a pochi passi da Hamra Street.  Sui muri nessun segno della guerra scatenata da Israele nel 2006. Non ci sono stati bombardamenti qui, ma l’aria è polverosa e carcasse di palazzi ammonticchiati ricordano l’impegno ricostruttivo degli ingegneri di Hezbollah, il Partito di Dio, che nel giro di un paio di anni ha letteralmente rimesso in piedi il paese, costruendo strade e tirando su condomini . Un lavoro poderoso e rapido,  che non ha dato spazio a corruzione o a tentativi speculativi: «Hezbollah  rappresenta un fortissimo collante di resistenza nazionale, ma è anche un movimento assistenzialista, da sempre dalla parte del popolo. Senza i suoi aiuti migliaia di persone sarebbero ancora sfollate, senza cure mediche, scuole e generi di prima necessità». Kemal ha 32 anni. Una laurea in filosofia e tanti progetti per il futuro: «Sono fortunato perché la mia famiglia si è trasferita in Canada. Lavoro con l’Università e a differenza dei miei coetanei libanesi posso progettare la mia vita. A Beirut non c’è futuro. I giovani sono fuori dal processo politico e produttivo. La società mantiene un’impalcatura feudale». Il Libano è uno Stato confessionale, strutturato in collegio elettorali ciascuno appannaggio di un’etnia: «Ce ne sono 128, dice Kemal, e ognuna è in mano a un “signore” al quale è necessario rivolgersi per ottenere un lavoro, trovare casa, difendere un sopruso o addirittura per sposarsi. Considera che qui non abbiamo una legge sul divorzio né una sull’aborto. Per interrompere la gravidanza le donne sono costrette alla clandestinità o a espatriare». Il Parlamento è suddiviso in caste religiose, Drusi, Maroniti, Cattolici, Alawiti si suddividono i seggi e le alte cariche dello Stato. «Le caste rispecchiano l’etnia di provenienza, creando una fissità di potere chiuso e immutabile. Le cariche istituzionali sono così ripartite: il Presidente della Repubblica deve essere un Cristiano Maronita, quello del Consiglio un Musulmano Sunnita, quello del Parlamento un Musulmano Sciita. E’ l’unica strada per tenere in piedi la frammentarietà sociale e resistere alle continue minacce armate di Israele». Spostandomi da nord a sud ritrovo persone e paesaggi differenti. Il Libano è mosaico di culture e popoli. Le vestigia dell’antica colonia fenicia segnano la sponda meridionale del mediterraneo. Beirut, Tiro, Sidone si affacciano su un mare pigro e inquinato. Le ragazze portano jeans e abiti scollati. Alcune il Niqab, altre il foulard. Pochissime le infrastrutture, rari i turisti occidentali: «Un tempo venivano gli europei e ci chiamavano la Svizzera del Medio Oriente. Mia madre mi racconta che trent’anni fa il centro di Beirut era pieno di vita, c’erano mercati, gente, comizi improvvisati, oggi è diventato un biglietto da visita per gli stranieri, le strade sono eleganti e massicciate, i bar costosi e inavvicinabili, i libanesi sono stati cacciati fuori, e la zona della moschea è in mano a speculatori sauditi e uomini d’affari del Qatar». Stretto tra Siria e Israele, il Libano è considerato un paese cerniera nella geo-politica di una regione ossessionata dall’incubo della sicurezza, come invoca il Governo di Tel Aviv.  Ufficialmente sono più di 50.00 i profughi fuoriusciti dalla Siria. Il pericolo è che il Libano si trasformi in centralina della contro-rivoluzione. Un mercato per lo smistamento di armi, che attraverso i confini con la Siria alimentano la spirale di violenza fomentata dagli occidentali nella Repubblica di Assad. «Come sempre in questa guerra chi ci va di mezzo è la popolazione, quel che sta avvenendo in Siria è l’inizio di un conflitto regionale a più largo spettro. Il rischio è spazzar via quel poco di laicità che la società siriana esprimeva,  facendo precipitare il paese in uno stato confessionale su modello libanese. Molti considerano la Siria occupata. Altri no. La realtà è che oggi in Siria ci sono tutti, e tutti sono armati». Europei, turchi, americani, arabi e petro-monarchie si dividono il potere dei due schieramenti in campo. I russi difendono il governo di Assad. Gli americani vogliono i giacimenti di gas e petrolio, come hanno fatto  in Libia Francia e Usa, un copione già visto. Una partita sporca che sfrutta l’Islam politico. Quello moderato, che tanto piace a Washinghton e alle cancellerie occidentali: «Sono molto preoccupato per il mio paese. La guerra sta diventando un affare colossale che non ha niente a che fare con le riforme democratiche. Stanno attentando alla sovranità di Assad per creare una regione cuscinetto in grado di garantire gli interessi occidentali in Medio Oriente. I rischi per il Libano sono tanti. Se andrà bene avremo comunque perso la libertà. E in questo quadro non ci sono speranze per i giovani». 

Tripoli, campo profughi palestinesi.  Intervista a Nur Ahamad Diab

I campi profughi palestinesi sono angoli di inferno. Ghetti maleodoranti e polverosi a ridosso delle città. Quartieri di periferia. Ce ne sono a migliaia in Medio Oriente. Sparsi tra Libano, Giordania, Siria, Westbank e Gaza. Sono vere e proprie prigioni a cielo aperto. Terra degli ultimi. Favelas di cemento per un’umanità dimenticata cui si continua a negare passaporto e diritto al lavoro. In Libano, ufficialmente, se ne contano una  dozzina. Ospitano palestinesi scampati alla guerra del 1948.  In arabo al-Nakba, “la catastrofe”, che con un colpo di mano portò Israele ad autoproclamarsi nazione indipendente. Complici i flussi di denaro e coloni che ogni mese, a suon di 10.000 arrivi, strappavano terra e case agli arabi palestinesi. Una guerra di apartheid ingaggiata dal Governo di Israele. Complice l’ideologia razzista su cui poggia la costruzione dell’stato ebraico: il sionismo. Un’ideologia intoccabile agli occhi del mondo grazie a una “Carta Costituzionale” promanata direttamente da Dio. Un principio non negoziabile, quello della “terra promessa”, che ha portato Israele a compiere la più grande impresa coloniale della Storia  contemporanea. Un’invasione che continua ancora oggi, in spregio al diritto internazionale, al principi di autodeterminazione dei popoli e alle  Risoluzioni dell’Onu.  In Libano il  “diritto al ritorno” non è più neanche una speranza per i giovani che vivono nei campi da generazioni -ereditando lo status di rifugiato palestinese - caso unico al mondo. Nei sobborghi fatiscenti in cui la Storia sembra essersi fermata vivono quasi due milioni di persone, 230 mila solo nel Paese dei Cedri. Nur Ahmad Diab abita nel campo di Nahr el Bared, nord di Tripoli. Ha 22 anni e gli occhi luminosi: «Sono nata qui e non conosco altro. Mio padre è palestinese. Siamo musulmani ma non indosso il velo perché la mia fortuna è di avere una madre libanese. E’lei che ha convinto mio padre a lasciarmi libera di vestire come volevo. Qui sono felice, sto con la mia famiglia e insegno nella scuola materna. Mi piace cantare e poi dipingere e fare collage, questo cartellone l’ho costruito io».  Nur ha avuto la casa distrutta cinque anni fa dai missili Israeliani. La stanno ricostruendo e per il momento occupa una abitazione più piccola nella “città nuova”, un ammasso di palazzoni tra polvere e calcinacci. Non c’è intonaco alle pareti e il pavimento è d’asfalto. «L’acqua manca spesso e la luce ce l’abbiamo per sei ore al giorno, a rotazione. Alcuni di noi sono riusciti ad andarsene. Ho due fratelli che hanno studiato all’università libanese. Oggi fanno gli operai a Bruxelles e si sono fatti una famiglia. Anch’io un giorno vorrei andarmene ma non ho un vero progetto. Vorrei sposarmi e anche lavorare ma so che l’amore è qualcosa che non dipende da me, succede e basta. Spero capiterà presto, ancora non sono fidanzata. Il mio sogno è continuare a cantare, non soltanto qui,  ma all’Onesko, il più grande teatro di Beirut, è lì che vorrei esibirmi».

Emanuela Irace

Il video del convegno internazionale "La Causa", con Emanuela Irace, Liberadonna e Patrizia Cecconi: