Vincenzo Vinciguerra: Nemici della patria II




L’APPARATO POLITICO-MILITARE

Alla fine della Seconda guerra mondiale, l’8 maggio 1945, tutti i partiti politici, dalle Alpi alla Sicilia, mantengono in armi le proprie strutture che, man mano, dovrebbero essere disarmate ma che, in realtà, consegnano solo quel che basta per dare agli al­leati la sensazione di aver provveduto alla smobilitazione delle formazioni partigiane di partito, comuniste, azioniste, democri­stiane, liberali.
Le Forze armate, dal canto loro, sono impegnate in prima linea in due punti della penisola: la Sicilia, dove si trovano a dover fronteggiare il movimento separatista, in forma ufficiale; e il confine orientale con la Jugoslavia, dove non hanno alcuna possi­bilità d'intervento perché tutto il Friuli Venezia Giulia permane sotto rigida occupazione militare alleata.
Non ci sarà guerra fra le potenze anglo-sassoni e la Jugoslavia perché quest'ultima non è assolutamente in grado di sostenerla. Ne sono consapevoli i diplomatici americani e britannici.
Il 17 giugno 1946, l'ambasciatore britannico a Mosca invia al Foreign office il resoconto di un colloquio avuto con il suo collega, americano, Walter Bedell Smith:
"È convinto - scrive - che Tito, a Mosca, abbia proposto ai russi di attaccare Trieste, e che questi abbiano respinto il piano. Secondo il generale, i russi si rendono conto meglio di chiunque al­tro, dei limiti delle armate partigiane; di conseguenza sono al corrente della precarietà dell'attuale situazione jugoslava, so­prattutto da un punto di vista militare. A suo dire, in nessuna circostanza Mosca incoraggerà Tito a rischiare uno scontro armato con le truppe alleate nella Venezia Giulia. Sa benissimo che ciò porte­rebbe a un conflitto fra le truppe sovietiche e l'esercito angloa­mericano che è ottimamente equipaggiato. I russi non desiderano in alcun modo affrontare una simile situazione: non sarebbero così for­ti da scatenare una guerra totale, anche se disponessero di un'ini­ziale superiorità numerica".
Il giorno successivo, 18 giugno, il suo collega a Belgrado, in­via a Londra una relazione nella quale non esita a scrivere:
"L’Urss spera di riguadagnare la fiducia dell'Italia sostenendo le richieste jugoslave in una certa fase delle trattative, e quelle di Roma in un momento successivo. Mosca non si cura degli effet­ti di questo doppio gioco sulla Jugoslavia, che è già un paese a influenza sovietica. Al contrario, l'Italia è fuori dal blocco russo e assume quindi, sul lungo periodo, un'importanza maggiore nelle mire moscovite”.
Non ci sarà guerra al confine orientale, ma il contenzioso con la Jugoslavia che ha pesantissimi riflessi sul piano interno per­ché il Partito comunista italiano, diretto da Palmiro Togliatti, in base alle direttive ricevute da Josip Stalin, sostiene le pre­tese del maresciallo Josip Broz, detto "Tito", su Trieste e  Gorizia, consente al governo italiano, presieduto da Alcide De Gasperi, ed allo Stato maggiore dell'esercito di iniziare la costituzione di gruppi paramilitari clandestini in Friuli Venezia Giulia.
La difesa dell'italianità delle terre irredente permette al go­verno ed all'esercito di anticipare quanto sarà, poi, fatto negli anni successivi su tutto il territorio nazionale: inquadrare nei gruppi clandestini, a fianco dei partigiani "bianchi", i reduci della Repubblica sociale italiana, che fanno fronte comune contro gli iugoslavi ed i comunisti italiani, loro alleati, cementando una alleanza che si era già formata, riservatamente, nel corso del con­flitto quando i soli ad opporsi all'avanzata del IX Corpus, in mo­do necessariamente diverso per la militanza in campi avversi, era­no stati i partigiani della divisione "Osoppo-Friuli" al comando di Candido Grassi, "Verdi", e i battaglioni della Repubblica so­ciale italiana, in particolare quelli della divisione di fanteria di marina "Decima" agli ordini di Junio Valerio Borghese.
La lotta contro il nemico esterno (gli jugoslavi) si coniuga con quella contro il nemico interno (i comunisti italiani) e il fronte interno anticomunista si salda e si unisce dimenticando la passata contrapposizione politica ed ideologica.
Nel tempo che intercorre fra la caduta del governo presieduto da Ferruccio Parri (24 novembre 1945) e la costituzione del primo go­verno presieduto dal democristiano Alcide De Gasperi (10 dicembre 1945) , a Gorizia, il locale Comitato di liberazione nazionale co­stituisce la formazione paramilitare clandestina, denominata "Divisione Gorizia”, forte di 1.200 uomini, collegata con il 5° Comiliter di Udine.
L'11 dicembre 1945, il giorno successivo all'insediamento di Al­cide De Gasperi al governo, sempre a Gorizia, a cura di Primo Cre­sta, del capitano Barba, di Bruno Cocianni e con la collaborazio­ne di Candido Grassi, comandante della, divisione partigiana "Osoppo-Friuli", è costituita 1'Associazione partigiani italiani (Api).
Ufficialmente, l'Api è un'associazione politica composta da re­duci partigiani ma rientra a pieno titolo nel novero delle forma­zioni paramilitari perché è dotata di una struttura armata clan­destina anch'essa in contatto con gli ufficiali dell'esercito.
Nel mese di gennaio, a Udine, i comandanti della divisione "Osoppo" riarmano i reparti dandone notizia al capo di Stato maggio­re dell'esercito, generale Raffaele Cadorna.
Il 28 aprile 1946, il comandante generale dell'Arma dei carabi­nieri, generale Brunetto Brunetti, informa personalmente il presi­dente del Consiglio, Alcide De Gasperi, che in Friuli è stato co­stituito il gruppo paramilitare "Fratelli d'Italia".
A Gorizia, l'11 giugno 1946, è creato, il "Gruppo Brigate Venezia Giulia", composto da partigiani anticomunisti.
Prima ancora della costituzione del 3° Corpo volontari della li­bertà, che può essere considerata un'unità ausiliaria dell'eserci­to ufficialmente riconosciuta e pubblicamente nota, tutti gli altri gruppi clandestini sono dipendenti e coordinati dallo Stato maggio­re dell'esercito che mette a disposizione ufficiali, armi e soste­gno logistico ben consapevole che il loro impiego contro la Jugo­slavia rientra nel novero delle possibilità, mentre è certo quello contro i comunisti italiani.
Se la presenza delle Forze armate nei gruppi paramilitari costi­tuiti fin dal novembre 1945 a ridosso della frontiera orientale è da tutti accettata ed ampiamente documentata, sfuma fino ad apparire pressoché inesistente nei gruppi che sono stati creati, sul territorio nazionale, nel corso del 1946 e, via via, fino alla prima­vera del 1948.
L'anticomunismo che si arma non può prescindere dall'autorizza­zione delle autorità politiche che, a loro volta, demandano a quelle militari l'incarico di coordinare le attività dei vari gruppi tramite l'Arma dei carabinieri ed i servizi segreti.
Il 3 marzo 1946, a Milano, con l'approvazione dello statuto e del regolamento provvisorio, la Chiesa ambrosiana ricostituisce la propria formazione paramilitare, il Movimento dell'avanguardia cattolica (Maci), che ha come requisito primo la segretezza anche nei confronti delle forze di polizia.
Lo dimostrano le istruzioni impartite ai militanti, il 27 marzo 1947, che impongono, nel caso di domande da parte di agenti e fun­zionari della Pubblica sicurezza, di "dire che trattasi di orga­nizzazione cattolica con scopi culturali e divulgazione dei prin­cipi cristiani; che non esiste alcun registro e che non siamo in grado di fornire altri elementi".
Ma non esistono dubbi sul fatto che il Maci sia stato un gruppo paramilitare predisposto, sotto la guida di vescovi e monsignori, a partecipare ad una guerra civile.
Nel mese di febbraio del 1948, ad esempio, il gruppo "Ariberto" comunica ai propri dirigenti di avere 70 uomini, con una squadra di pronto impiego di 15 uomini, 2 mitra, 8 pistole e 5 bombe a ma­no ma, specifica, che in caso di bisogno può contare su vari grup­pi armati dell'Opc a Origgio.
Il gruppo "Garcia Moreno" informa di essere privo di munizioni di riserva, e delinea la situazione dei trasporti, l’ubicazione delle fabbriche, indicando gli obiettivi da difendere fra i quali la chiesa, l'oratorio, il cinema, la sede delle Acli ed altri an­cora.
Un terzo gruppo, infine, lamenta di aver poche pistole ma segna­la di intrattenere ottimi rapporti con i carabinieri.
Il 1° aprile 1948, a Milano, il maggiore dei carabinieri Antonio Di Dato consegna ai propri subalterni, fra i quali il capita­no Aldo Altomare, comandante della compagnia di Milano suburbana, un promemoria a titolo di "orientamento" relativo all’inquadramen­to, armamento ed impiego di volontari civili cattolici da parte dell'Arma.
Al promemoria è allegato un elenco di persone "affidabili" del Maci, fra le quali spicca Adamo Degli Occhi che, nei primi anni Settanta, sarà a Milano uno dei protagonisti dell'anticomunismo politico e sarà, infine, grottescamente accusato di "golpismo".
Non c'è, in campo cattolico, solo il Maci.
Il 27 febbraio 1948, a Torino. Renato Foietta, responsabile del­l'organizzazione paramilitare cattolica "Vedette" in Piemonte, scrive a tale Pozzati per informarlo che "il Cs (controspionag­gio - Ndr) è disposto a permettere che qualcuno di voi indossi la divisa di carabiniere...Il Cs è disposto a mettere in contatto personale uno di voi; e pensavo a te (vedi tu) con il comando dei carabinieri locale e agire sempre assieme. Mi pare che questa - con­clude Foietta - sia una buona cosa".
L'8 febbraio 1948, su ordine personale di Pio XII, è stato co­stituito il "Comitato civico" diretto da Luigi Gedda, che sarà l'organizzazione politica con la quale il Vaticano contrasterà i social-comunisti del "Fronte popolare", ed accanto ad essa, dis­simulata e segreta, ci sarà 1'organizzazione paramilitare pronta ad intervenire con le armi contro i "senza Dio", anch'essa debitamente collegata alle Forze armate ed al suo Stato maggiore.
Nel mese di aprile del 1946, a cura del colonnello Ugo Corrado Musco, è fondata 1'Armata italiana della libertà (Ail) che si pro­pone di difendere le "quattro libertà" proclamate dalla Carta atlan­tica.
Il colonnello Ugo Corrado Musco è fratello del colonnello Etto­re Musco, comandante dei servizi segreti militari, così che nono­stante la speculazione fatta sul conto di questa organizzazione che, alla pari di tutte le altre annoverava fra i suoi gregari numerosi reduci fascisti, l'Ail può essere considerata una formazione politico-militare governativa.
Ne fa testo l'elenco dei componenti del suo comitato centrale, depositato presso l'ambasciata americana dal colonnello Ugo Corrado Musco, il 23 ottobre 1947.
Il vertice dell'Armata di liberazione è composto da 35 persone, delle quali 10 sono generali, 4 ammiragli e 3 colonnelli, tutti componenti di quelle gerarchie militari che, l’8 settembre 1943, si erano schierate con gli alleati.
Vi sono, difatti, l'ammiraglio Alberto Da Zara che aveva con­dotto le navi italiane, con i segni della resa, da Taranto a Mal­ta; il generale Renato Sandalli, ministro dell'Aeronautica nel pri­mo governo Badoglio; Gustavo Reisoli Mathieu; il generale dei ca­rabinieri, Luigi Sabatini, solo per citarne alcuni.
Ad ulteriore smentita di quanti continuano a presentare l'Ail come un'organizzazione "neofascista", e a confermare la matrice militare delle sue origini vi è la nota inviata al Dipartimento di stato dall'ambasciatore americano a Roma, James Clement Dunn, il 5 settembre 1947.
In questa Dunn segnala che “esiste una forza anticomunista or­ganizzata su scala nazionale nota come Armata italiana di libera­zione (Ail) che venne creata nella primavera del 1946. Le domande di arruolamento sono state 200.000 anche se il dato viene consi­derato ottimistico. Il comitato centrale dell’Ail ha sede a Roma, opera attraverso alti comandi regionali, provinciali, comunali. Formata dall’esercito, dalla Marina e dai carabinieri, è un'organizzazione - scrive Dunn - ancora non bene armata ma potrebbe essere equipaggiata se da parte dei comunisti ci fossero minacce di violenza attiva”.
Come prassi e logica vogliono, l'ambasciata americana ufficial­mente non partecipa all'attività dell'Ail, ma una lettera inviata dal massone Frank Gigliotti all'assistente segretario di Stato, Nor­man Armour, il 26 settembre 1947, conferma l'intervento americano.
Gigliotti scrive:
"Sono di origine italiana e...conosco come lavorano i comunisti da quando sono stato commissario all'Assistenza pubblica del mio paese e ho potuto vedere le loro cellule segrete in azione. Non possiamo acconsentire che ciò avvenga in Italia, ma è proprio questo che avverrà se non faremo qualcosa per i gruppi che sono all’’immedia­ta sinistra del centro’. Tutti i gruppi liberali e sinceramente de­mocratici, anticomunisti quanto il nostro stesso governo, si sentono terribilmente scoraggiati e delusi. Sentono che li abbiamo dimen­ticati dono averli messi in piedi, specie quando li abbiamo aiuta­ti a costruire 1'Armata italiana della libertà. E non possiamo la­sciare che succeda questo, perché se dovesse capitare un'altra guerra, e Dio non voglia che capiti, allora finiremmo per guadagnarci in Italia la stessa reputazione che adesso abbiamo in Jugoslavia per aver permesso che Mihajlovic venisse impiccato da Tito".
L'appartenenza alla massoneria, di Frank Gigliotti come degli ufficiali che fanno parte del comitato centrale dell'Ail, la sua di­pendenza dai vertici militari, la sua funzione di forza d'urto con­tro i comunisti, fanno di questa organizzazione l'esempio al quale si sono ispirati quanti hanno fatto della loggia Propaganda 2 del Grande Oriente d'Italia, negli anni Sessanta, e Settanta, una struttu­ra atlantica operante all'interno della massoneria.
La sola differenza fra 1'Armata italiana di liberazione e 1a loggia P2 risiede nel fatto che la prima si proponeva di organizzare un esercito nell'esercito, ovvero una forza paramilitare in grado di affiancare le Forze armate contro i comunisti, mentre la secon­da, mutati i tempi e le condizioni, ha proceduto ad un arruolamen­to selettivo dei propri elementi chiamati a svolgere compiti poli­tici ad alto livello, sul piano interno ed internazionale, con lo obiettivo dichiarato di impedire al Pci l'ingresso in una maggio­ranza governativa.
Massoneria e Forze armate si stagliano apertamente anche alle spalle del "Fronte italiano anticomunista", la cui imminente co­stituzione è segnalata in un rapporto del 20 maggio 1946 che attribuisce l'iniziativa all'ammiraglio Raffaele De Courten, al genera­le Roberto Bencivenga e al senatore Alberto Bergamini.


Un secondo rapporto americano del 17 giugno 1946 afferma che "un gruppo di personalità politiche e militari legate agli ambienti della destra, incoraggiate e perfino finanziate da centri di osservazione stranieri, hanno iniziato consultazioni con l'obiettivo di creare un movimento politico di stampo massonico conosciuto co­me il Fronte italiano anticomunista...il suo programma politico non è ancora pienamente noto. È sintomatico, comunque, che il mo­vimento sia aperto a tutti i nemici del comunismo, specialmente ai circoli militari e agli ex fascisti".

Due note informative dell'anno successivo confermano che il Fronte italiano anticomunista è stato effettivamente, costituito e ne chiariscono le finalità.

La prima dell'8 luglio 1947, rileva che i capi dell'organizzazione si riunirebbero nella sede della Lux Film, a Roma, e che ad essa aderirebbero molti ufficiali dei carabinieri.

La seconda, risalente al 15 luglio 1947, specifica che il "Fron­te italiano anticomunista", fondato dall'ammiraglio Raffaele De Courten nella primavera del 1946, avrebbe assunto la denominazio­ne di "Truppe nazionali anticomuniste" e sarebbe in grado di in­tervenire in caso di disordini di piazza.

L'attivismo militare in campo politico produce anche la creazio­ne di un altro gruppo paramilitare, il "Fronte antibolscevico", i cui promotori sono il colonnello dell'Esercito, Oete Blatto, in servizio presso lo Stato maggiore; il colonnello dell'Aeronautica, ex responsabile del Sia, Ugo Fischietti, il colonnello del Sia, Angelo Crocetta.

Il Fronte antibolscevico è occultato sotto la copertura dell'As­sociazione per il turismo aereo internazionale (Atai), e giunge ad annoverare fino a 2.500 uomini per essere, ufficialmente, di­sciolto nell'estate del 1948.

Il luogo comune sull'apoliticità delle Forze armate italiane, sul loro distacco dalle contese politico-ideologiche trova nella storia delle formazioni paramilitari del secondo dopoguerra la migliore e la più netta delle smentite.

Non c'è gruppo di estrazione anticomunista che, quando non sia stato promosso da ufficiali delle Forze armate, rappresentanti di tutte e tre le Armi (Esercito, Marina ed Aeronautica), non sia in stabile contatto almeno con i carabinieri, onnipresenti ed onni­scienti .

In due anni, dal 1946 al 1948, l'anticomunismo italiano si ar­ma sotto il controllo del governo e dei suoi organismi militari e di polizia per fare fronte ad una minaccia che appare solo ipote­tica.

All'elenco delle formazioni già citate si possono aggiungere, a titolo di esempio, il "Movimento anticomunista repubblicano ita­liano" (Macri), forte, secondo una nota informativa del 31 dicem­bre 1946, di undicimila uomini e in contatto con il mafioso Salva­tore Giuliano; mentre, nel mese di giugno del 1947, a Roma, è creata 1'"Unione patriottica anticomunista" (Upa) che fa capo direttamente all'Arma dei carabinieri.

L'apparato clandestino del Partito comunista italiano si trova a dover fronteggiare una miriade di gruppi ed organizzazioni pa­ramilitari non ufficiali, magari slegate fra esse, prive cioè di collegamenti orizzontali, ma verticalmente dipendenti, sotto il pro­filo del coordinamento, dallo Stato maggiore della Difesa, in for­ma occulta.

Una conferma indiretta viene dall'autorevole testimonianza del generale Ambrogio Viviani, secondo il quale, nel 1947, nell'ambito dell'Ufficio operazioni dello Stato maggiore dell'esercito risulta­va operante una "sezione informazioni" che non s’identificava con l'Ufficio informazioni e, nell’ambito del 1° Reparto dello Stato maggiore dell'Aeronautica risultava in funzione una sezione infor­mazioni distinta dal Servizio informazioni aeronautica (Sia).

Il 10 maggio 1947, con Ddl n. 306, viene emanato l'ordinamento del ministero della Difesa e, nell'ambito del Gabinetto del mini­stro, viene istituito un "Ufficio affari riservaticon compiti che non vengono specificati.

Una risposta all'esistenza di questo misterioso ufficio si può forse trovare in un memorandum redatto dall'ambasciatore britannico in Italia, Victor Mallet, relativo ad un colloquio fra il pre­sidente del Consiglio Alcide De Gasperi, il ministro degli Esteri Carlo Sforza ed il suo omologo britannico Anthony Eden, del 30 di­cembre 1947.

De Gasperi, difatti, informa Eden di aver "incaricato il signor Pacciardi, uno dei nuovi vicepresidenti del Consiglio e leader del Partito repubblicano, di agire in qualità di presidente di una sorta di comitato per la difesa civile".

Non ci sono solo le formazioni paramilitari create dallo Stato maggiore dell'esercito in forma più o meno occulta o, comunque, per iniziativa di alti ufficiali delle tre Armi e dei carabinieri.

La lotta politica italiana, infatti, si militarizza ma in for­ma clandestina perché è ufficialmente tornata la pace ed i parti­ti ideologicamente nemici convivono nello stesso governo, mentre i sostenitori della Repubblica si preparano ad abbattere la mo­narchia ed i monarchici a difendere Casa Savoia.

Fino al 2 giugno 1946, la necessità di restare con le armi in pugno risponde ad una logica ambivalente: da un lato quella del­la possibilità dello scontro fra anticomunisti e comunisti, dal­l'altro, quella di una guerra civile fra monarchici e repubblica­ni .

Così, il 13 febbraio 1946, l'agente JK23 dell'Oss, nel rapporto intitolato "Attività politiche clandestine", scrive che al "coman­do di Pacciardi, i repubblicani hanno probabilmente nascosto gran­di quantità di armi e organizzato forze militari clandestine".

Lo stesso giorno, un altro rapporto dello stesso Oss, relativo ad "Organizzazione monarchica Raam-Reparti antitotalitari antimar­xisti monarchici", segnala:

"La Raam è una organizzazione anticomunista pro monarchica ope­rante all'interno delle forze armate italiane e al comando del maresciallo Messe. È formata da piccoli gruppi di sei o sette per­sone guidati da ufficiali dell'esercito, della marina e dei cara­binieri. Si contano anche molti civili...Si dice che prepari in segreto un'insurrezione armata con l'aiuto di partiti politici e lei legati. I suoi principali centri si trovano a Roma, a Milano, Napo­li, Cesano, Aurelia e Alto Adige".

Ancora il 30 maggio 1946, Corrado Bonfantini e Carlo Andreoni distribuiscono armi ai militanti socialisti in previsione di un colpo di Stato monarchico.

Anche i servizi segreti americani paventano la possibilità di un colpo di mano, in questo caso comunista, in caso di vittoria monar­chica al referendum del 2 giugno 1946.

La valutazione che ne fanno, il 17 aprile 1946, in risposta ad una richiesta avanzata dal presidente del Consiglio, Alcide De Gasperi, appare realistica:

"Eccetto che per le province dell'Emilia Romagna, si ritiene improbabile il ricorso alla forza se non con tentativi sporadici e limitati localmente. Nessuna prova di preparativi di colpi di Sta­to. I comunisti risultano meglio armati ed organizzati degli altri partiti, ma anche questi perlomeno a certi livelli risultano arma­ti. Se la monarchia dovesse vincere il referendum con una maggioranza minima, allora questo potrebbe costituire lo spunto per un pos­sibile colpo di Stato di sinistra..."

Il 2 giugno 1946 vince la Repubblica.

Viene così evitato un possibile scontro fra repubblicani e monar­chici che avrebbe affiancati fra i primi, spalla a spalla, gran par­te dei reduci della Repubblica sociale e partigiani delle brigate "Garibaldi" con conseguenze imprevedibili per la successiva sto­ria italiana.

Viceversa, nessuno si muove. L'Esercito accetta il risultato, l'Arma dei reali carabinieri fa altrettanto, la regia Marina militare si limita ad accompagnare la regina Maria José e la sua famiglia, il 5 giugno 1946, ad Oporto (Portogallo), a bordo dell'incrociato­re "Duca degli Abruzzi".

La partenza per Oporto di Umberto II, il 13 giugno 1946, dall'ae­roporto di Ciampino scongiura definitivamente il pericolo di uno scontro fra le due opposte fazioni, ma le armi non vengono riposte.

L'esito delle votazioni per l'elezione dell'Assemblea costi­tuente ha, difatti, posto in evidenza la forza elettorale dei partiti dell'estrema sinistra italiana.

La Democrazia cristiana, si è affermata come il primo partito italiano con 8.101.404 voti, alle sue spalle però il Partito socialista conta 4.758.129 voti e quello comunista 4.356.686, per un totale per i due partiti di 9.114.818 voti, un numero tale che sgomenta l'anticomunismo italiano ed internazionale.

Scongiurato il pericolo dello scontro fra monarchici e repubbli­cani, dinanzi all'evidenza dei risultati elettorali sia gli anticomunisti che i comunisti non escludono la possibilità di fare ri­corso alla forza per giungere al potere in Italia.

Stati uniti e Gran Bretagna sanno perfettamente che non sarà Josip Stalin ad autorizzare il Pci, diretto da un uomo di sua fidu­cia come Palmiro Togliatti, a tentare la conquista del potere in Italia per via insurrezionale perché lo vietano gli accordi di Jalta, la cui violazione nella sfera d’influenza occidentale po­trebbe autorizzare gli anglo-sassoni ad intervenire all'interno dei paesi dell'Europa dell'est, in cui i partiti comunisti non hanno ancora consolidato il loro potere.

Ma, se il Partito comunista italiano insieme a quello sociali­sta fosse in grado nel giro di pochi anni di ottenere la maggio­ranza relativa dei voti, acquisendo il diritto di formare il go­verno, come potrebbero le democrazia anglo-sassoni contestare un potere raggiunto per via elettorale, democratica, basata sul con­senso di gran parte dell'elettorato italiano?

Si materializza, in questo modo, la grande paura dell'anticomu­nismo, quella dell'aggiramento dei patti di Jalta per via eletto­rale da parte del Pci e dei suoi alleati, che condizionerà in modo tragico tutta la vita italiana fino ai primi anni Ottanta.

Quali contromisure adottare per scongiurare questo pericolo?

La costituzione, in forma permanente, di un apparato militare se­greto rientra certamente nel novero delle misure prese dai gover­ni democristiani in accordo con lo Stato maggiore della difesa, per fronteggiare tre eventualità:

1° - la possibilità che il Partito comunista tenti un colpo di ma­no per impadronirsi del potere.

2° - La possibile reazione armata dei comunisti dinanzi alla sconfitta elettorale del 18 aprile 1948, considerata certa, e al­la loro successiva estromissione dal governo;

3° - una possibile vittoria elettorale del Pci al quale bisognerà impedire di formare il nuovo governo e, comunque, di governare.

L'apparato politico-militare avrà, quindi, compiti difensivi ed offensivi ma, nel corso degli anni, naufragate le ipotesi di una insurrezione comunista per impadronirsi del potere o per reagire ad una sconfitta elettorale, all’estromissione del partito dal go­verno o alle provocazioni dei governi democristiani, resteranno va­lidi solo questi ultimi che, via via, saranno i soli ad essere con­siderati ed attuati fino al 1979, quando per la prima volta nella storia del dopoguerra il Partito comunista inizierà a perdere con­sensi elettorali e cesserà di rappresentare una minaccia per l'an­ticomunismo interno ed internazionale.

L’esistenza di un apparato politico-militare occulto diretto dallo Stato maggiore della difesa, sotto il controllo dei governi de­mocristiani non è una mera ipotesi.

Nel mese di ottobre del 1947, il segretario nazionale della De­mocrazia cristiana, Attilio Piccioni, affida a Paolo Emilio Taviani l’incarico di coordinare le attività delle formazioni paramili­tari clandestine che fanno capo al partito, e che sono composte nella quasi totalità da ex partigiani.

Il 7 novembre 1947, l'argomento relativo alla struttura parami­litare viene affrontato nel corso di una riunione della direzione nazionale.

Giuseppe Dossetti osserva che i comunisti "sono in grado di massacrare tutti i nostri quadri periferici con pochi uomini", e chiede di "inserire il nostro piano nel piano generale del governo". Mario Scelba, ministro degli Interni, afferma che occorre "mettere il partito in assetto di difesa” perché "il governo non può fronteggiare tutto e dappertutto" e che, inoltre, "bisogna met­tersi d'accordo con i partiti che intendono difendere decisamen­te le libertà democratiche".

Fra questi ultimi si colloca il Movimento sociale italiano.

Non doveva il "neofascismo", secondo la strategia delineata da Pi­no Romualdi nel luglio del 1946, riguadagnare i favori della bor­ghesia italiana "dalla congenita vigliaccheria”, ponendosi alla avanguardia della battaglia contro il comunismo?

L'eventualità di uno scontro armato con i comunisti esalta Gior­gio Almirante che in vita sua non ha mai combattuto, ma sa di po­ter contare su diverse migliaia di reduci della Repubblica socia­le addestrati militarmente e disponibili alla battaglia.

Già il 1° febbraio 1947, Giorgio Almirante aveva scritto a Fran­co De Agazio, direttore de "Il Meridiano d'Italia”, a Milano, per richiedere il suo intervento presso il cardinale di Torino, Fossa­ti :

"Caro De Agazio, a nome del Movimento ti prego di una missione urgente ed importantissima. Abbiamo avuta notizia sicura che il cardinale Fossati di Torino ha convocate parecchie persone e personalità allo scopo di addivenire alla fondazione in Piemonte di squadre di resistenza anticomunista. Tu capirai cosa significa e cosa può significare ciò. Affidiamo quindi a te la missione di an­dare a Torino, possibilmente con altra persona di fiducia, di far­ti ad ogni costo ricevere dal Fossati e di prospettargli la possi­bilità che il Msi collabori con lui...".

Il 16 aprile 1947, l'agente americano Barret, in un suo rapporto, segnala che a Napoli, "come contromisura contro la violenza comunista...Il Movimento sociale italiano (Msi) ha iniziato a di­stribuire armi automatiche ai suoi militanti e ha nominato un ge­nerale (la cui identità è ignota) al comando delle fazioni".

A prescindere dalle iniziative assunte sul piano locale in vari centri della penisola, la struttura clandestina paramilitare del Movimento sociale italiano s'identifica con i Fasci di azione rivoluzionaria, fondati nell'estate del 1946, da Pino Romualdi che è, contestualmente, uno dei fondatori dello stesso Msi.

Come il partito che rappresenta la struttura legale, politica ed ufficiale, anche i Far sono un’emanazione diretta dei servizi se­greti americani ed italiani.

Il 29 ottobre 1946, il capo della polizia, Luigi Ferrari, segnala ai questori di Roma e Frosinone tale Antonio Di Legge, alias Quinto Romani, il quale afferma di essere al servizio degli anglo- americani per i quali organizza, anche con la collaborazione di Pino Romualdi, "gruppi armati anticomunisti".

Due giorni più tardi, il 31 ottobre, gli ebrei dell’Irgun di Menachem Begin fanno saltare in aria la sede dell’ambasciata bri­tannica a Roma, con l'esplosivo fornito dallo stesso Pino Romual­di che collabora con l'organizzazione terroristica ebraica, su in­vito dei servizi segreti italiani ed americani, gli stessi che hanno già stabilito il contatto fra gli uomini di Junio Valerio Borghese e gli esponenti del sionismo armato.

La conferma, se mai serve, giunge da una nota informativa dei servizi segreti militari dell'11 febbraio 1949, che segnala come l'agente americano Joseph Luongo abbia richiesto a persona non identificata se il governo italiano si avvale dell'opera dei Fasci di azione rivoluzionaria per i quali gli americani hanno speso forti somme per potenziarli e metterli in grado di agire in caso di sollevazioni di sinistra.

L'11 febbraio 1948, una nota informativa del ministero degli In­terni segnala che è stato concluso "un importante accordo... tra il Msi e alcuni industriali dell'Alta Italia, già sovvenzionatori del fascismo...per l’apporto di fondi per un maggiore incremento del­l'organizzazione del movimento", nonché la creazione "a Roma di una brigata composta da ex combattenti ed elementi fascisti per la difesa esterna della capitale contro gli attacchi comunisti", affidata al comando di un ex console della Milizia.

Due giorni dopo, il 13 febbraio, il questore di Roma segnala, in un appunto, che la segreteria nazionale del Msi, "in previsione di possibili aggressioni alle sue sedi", ha chiesto alle sezioni periferiche "nominativi di iscritti disposti a costituire speciali squadre di difesa".

L’attivismo in campo paramilitare del Movimento sociale italia­no non è fine a sé stesso, perché il partito di Giorgio Almirante procede di comune accordo con la Democrazia cristiana sul piano attivistico, con squadre formate da militanti di entrambi i partiti, e si appresta a svolgere propaganda elettorale per il partito di Al­cide De Gasperi rinunciando perfino a una parte di voti che potrebbe­ro confluire sul suo simbolo, per avere la possibilità di entrare a far parte, a pieno titolo, di quei partiti politici che inten­dono difendere decisamente le libertà democratiche", come afferma­to dal ministro degli Interni, Mario Scelba.

Il Movimento sociale italiano sarà, infatti, inserito sia nel piano di difesa dello Stato che in quello predisposto per l'auto­difesa dei partiti politici, dei loro uomini e delle loro sedi che entrerà in funzione nell'imminenza delle elezioni politiche del 18 aprile 1948.

Se il 26 dicembre 1946, il Movimento sociale nasce come movimen­to politico legittimato ad operare nella nuova Italia post-bellica, democratica ed antifascista, il 18 aprile 1948 riceve la sua consacrazione come colonna portante del sistema parlamentare sulla cui affidabilità nella lotta contro il comunismo e nella fedeltà agli Stati uniti d'America non ci potranno essere dubbi di sorta.

Anzi, negli anni a venire, sarà proprio il Msi a fornire allo Stato ed alle sue strutture segrete e segretissime gli uomini per condurre la guerra civile che, mediante la destabilizzazione del­l'ordine pubblico, riuscirà a stabilizzare quell'ordine politico di cui è parte integrante.

Non ci sono solo la Democrazia cristiana ed il Movimento socia­le impegnati a prepararsi ad un eventuale scontro militare, perché il 19 febbraio 1948, a palazzo Drago, a Roma, si svolge una riunio­ne alla quale prendono parte ventuno persone per studiare i piani da attuare in caso di vittoria elettorale del Fronte popolare.

Vi prendono parte, con altri, il generale Gustavo Reisoli Mathieu, il maresciallo Giovanni Messe, l'ammiraglio Thaon de Revel, il principe Colonna, Sartorio per la Confidustria, ed Emilio Patrissi.

L'obiettivo è coordinare l'attività di quei gruppi paramilita­ri che dovranno affiancare le Forze armate e di polizia in caso di scontri con i comunisti e, difatti, è chiamato a presiederla il generale Giuseppe Piechè, primo comandante generale dell’Arma dei carabinieri sotto il governo diretto dal maresciallo Pietro Badoglio nell'autunno del 1943.

Un mese prima, il 12 gennaio 1948, il console americano a Mi­lano, Charles Bay, aveva segnalato in un suo rapporto la tenden­za ad unire le forze delle formazioni paramilitari operanti in città e nella regione come il Movimento di resistenza popolare (Mrp) di Carlo Andreoni, di matrice socialdemocratica, 1'Armata italiana della libertà, l'Uomo qualunque ed il gruppo capeggiato da Emilio Patrissi.

La richiesta avanzata riservatamente dal governo di centro-si­nistra, presieduto da Massimo D'Alema, a quello americano di non divulgare i documenti della Cia inerenti l'intervento americano in Italia nel 1948, non consente di procedere ad una ricostruzione esaustiva dei piani predisposti dal governo di Alcide De Gasperi, dallo Stato maggiore della difesa e dagli Stati uniti per impedi­re al Fronte popolare di giungere al potere, in un modo o nell'altro, ma quanto è emerso nel corso degli anni ci consente di farla egualmente e di affermare che l'apparato politico-militare costi­tuito in quel periodo è stato mantenuto negli anni a venire come i piani di difesa, debitamente aggiornati via via, perché la "mi­naccia" comunista è rimasta inalterata, anzi si è accresciuta nel corso degli anni fine a raggiungere il suo culmine negli anni Set­tanta.

Negli anni Settanta, l'ex ministro degli Interni, Mario Scelba, racconterà al giornalista Antonio Gambino, in sintesi, quali era­no le misure predisposte dal governo, nell'aprile del 1948, per fronteggiare il "pericolo rosso":

"...Già nei primi mesi del 1948 - ricorda Scelba - era stata messa a punto un'infrastruttura capace di far fronte a un tentativo insurrezionale comunista. L'intero paese era stato diviso in una serie di grosse circoscrizioni, ognuna delle quali comprendeva varie provincie, e alla loro testa era stato designato in manie­ra riservata, per un eventuale momento di emergenza, una specie di prefetto più anziano o quello della città più importante, perché in alcuni casi era invece il questore o un altro uomo di sicura energia e di mia assoluta fiducia.

L'entrata in vigore di queste prefetture allargate sarebbe stata automatica, nel momento in cui le comunicazioni con Roma fossero state, a causa di una sollevazione, interrotte; allora i super-prefetti da me designati avrebbero assunto i pieni poteri dello Stato sapendo esattamente, in base a un piano preordinato, che co­sa fare.

D'altra parte ci eravamo preoccupati anche di impedire che si po­tesse arrivare a un'interruzione delle comunicazioni. Pensando che la prima mossa dei promotori di un eventuale colpo di Stato sarebbe stata di impadronirsi delle centrali telefoniche e delle stazio­ni radio, o quanto meno di renderle inutilizzabili, avevamo orga­nizzato un sistema di comunicazioni alternative, servendoci come punti di appoggio, di un certo numero di navi italiane e alleate presenti nel Mediterraneo".

Una doppia struttura di comando,una rete alternativa di comuni­cazioni che poggia sulla collaborazione delle navi della VI flot­ta, la suddivisione del Paese in circoscrizioni che non corrispon­dono a quelle delle province: di più Mario Scelba non dice, ma è sufficiente, specie se ricordiamo la circolare della direzione ge­nerale di Ps del 18 marzo 1948 che indicava le misure da prendere in vista delle elezioni politiche.

Accanto ai "servizi fissi di vigilanza ai seggi", a quelli di "pattugliamento e riserva", compaiono infatti i "servizi straordi­nari", non dipendenti dai prefetti, costituiti da reparti mobili di Ps, carabinieri ed Esercito come "riserva da impiegare soltanto in casi di gravi necessità".

Reparti inter-forze chiamati ad intervenire per reprimere even­tuali tentativi di rivolta ma non tali, per numero, da garantire il successo delle operazioni.

Accanto a questi reparti inter-forze è necessario affiancare mi­lizie civili i cui componenti abbiano due requisiti minimi: una fede anticomunista e una preparazione militare.

A guidare i reparti civili sono le Forze armate.

La prima testimonianza è quella di Piero Cattaneo:

"In occasione delle elezioni del 1948 vennero formati dei gruppi di partigiani cattolici col preciso compito di opporsi ad un'even­tuale presa del potere da parte dei comunisti. La formazione di que­sti gruppi armati era non solo conosciuta ma autorizzata e favori­ta dalle autorità costituite. Io personalmente sono stato nominato comandante generale per la provincia di Milano".

Piero Cattaneo era collegato, per sua ammissione, al comando dell'Arma dei carabinieri, da un lato, e al questore Vincenzo Agnesina, dall'altro, nominato quest'ultimo dal ministro degli Interni, Mario Scelba, responsabile dell'apparato clandestino costituendo 1'alter ego segreto del prefetto di Milano, in quella che era la doppia struttura di comando creata per l'occasione.

La conferma viene da una dichiarazione resa dal colonnello di fanteria in congedo, Giuseppe Falcone, trasmessa per conoscenza al ministro della Difesa, Luigi Gui, il 3 settembre 1969.

"Nell'anno 1948 in previsione delle elezioni politiche che si presentavano abbastanza difficoltose ebbi l'incarico in qualità di comandante del presidio di Sacile, dal comando del V Comiliter di Udine, di armare alcuni civili fidati nella zona di Sacile, Vittorio Veneto, Valcellina e limitrofi...Detti armi anche all'Arcivescovado di Udine - mons. Zaffonato - allora vescovo di Vittorio Veneto. Tutta questa zona era sotto il controllo diretto. Ad elezioni ultimate ritirai le armi e le versai alla sezione staccata di Artiglieria di Conegliano...".

La terza testimonianza viene da Massimo Rosti, componente a Pa­via della formazione paramilitare cattolica "Avanguardia di Cri­sto Re", fondata nel 1947 da don Carlo Barcella, ex cappellano mi­litare degli alpini in Albania e poi della divisione repubblicana "Monterosa", che rivela come il 15 aprile 1948 venne avvicinato da un ufficiale in congedo che gli fornì la parola d'ordine che, in caso di vittoria comunista alle elezioni, avrebbe dato inizio al­la reazione armata.

Nelle formazioni paramilitari che, nel tempo, si sono costitui­te dal 1945, i reduci della Repubblica sociale e i fascisti in genere hanno rivestito il ruolo che la loro condizione di sconfitti consentiva: un ruolo subalterno e gregario che, per essi, ha il vantaggio di facilitarne il reinserimento nella vita civile e politica del Paese operando nel solo campo il cui il loro contri­buto è ritenuto utile, spesso sollecitato, quella della battaglia contro il comunismo.

La nascita del Msi consente ora il loro impiego come forza au­tonoma e compatta.

La necessità del governo democristiano e dello Stato maggiore delle difesa di disporre di uomini in grado di combattere rappre­senta la grande occasione dei reduci fascisti che assaporano il piacere - che ha il gusto della rivincita -, dopo tante persecu­zioni, di essere chiamati a schierarsi insieme ai partigiani 'bian­chi' a difesa dello Stato repubblicano, democratico ed antifasci­sta.

Il 18 aprile 1948 rappresenta per i reduci della Rsi, che si ri­conoscono nel Movimento sociale, il giorno della loro definitiva riabilitazione: dopo quella data non ci saranno che due Italie con­trapposte, quella anticomunista e quella comunista.

L'Italia fascista rinuncia ai sogni di rivincita e si schiera sotto la bandiera dell'anticomunismo di Stato e di regime attorno al quale si raccolgono, uniti e compatti, militari della Repubbli­ca sociale e del Regno del sud, marò della divisione Decima e par­tigiani autonomi, militi della "Tagliamento" e "fazzoletti verdi" della "Osoppo", ognuno convinto di non rinnegare il proprio passato ma di considerarlo superato dal presente e ancor più dal futuro da ricostruire uniti nella battaglia, ridivenuta comune contro il nemico di sempre: il comunismo.

Il 18 aprile 1948, a Milano, all'interno della caserma La Marmo­ra sono ben 400 i reduci della Rsi che attendono, inquadrati dai carabinieri, di intervenire contro i "rossi".

Sempre a Milano, un ex ufficiale della Decima mas viene "avvici­nato da un capitano di polizia che con le credenziali del ministe­ro dell'interno a firma del ministro Scelba, gli chiede quanti uo­mini può mobilitare in caso di vittoria dei comunisti", ed è quin­di informato dal capitano di Ps che sono a loro disposizione "bracciali della polizia ausiliaria, armi, tessere di riconoscimento e altra dotazione... presso la caserma S. Ambrogio di Milano".

A Roma, nella sede del Msi è piazzata una mitragliatrice pesante Breda 37, fornita dall'esercito. E una seconda è installata nella sede nazionale nella Dc, a piazza del Gesù, servita da tre ex fanti di marina della Rsi che, su richiesta di Giorgio Tupini, sono stati mandati da Giorgio Almirante.

A Cremona, l'ex sottotenente dell’Aeronautica repubblicana, Tom­maso Donato, testimonierà in epoca successiva che il 18 aprile 1947, i carabinieri avevano fornito ai reduci della Rsi divise dell'Arma e uno "speciale tesserino contrassegnato da una lette­ra dell'alfabeto e da un numero in codice".

E migliaia di altri sono mobilitati per lo stesso fine, a di­sposizione nella loro grande maggioranza dell'Arma dei carabinie­ri che, per la dislocazione capillare nel territorio, può assolve­re il compito di selezionare gli uomini, armarli, inquadrarli, smobilitarli e, infine, mantenere con loro un rapporto destinato a durare per sempre.

Contro quello comunista, il regime democristiano riesce a schierare un esercito non ideologicamente omogeneo ma politicamente compatto che resterà, occultamente, a sua disposizione per tutto il tempo che la Democrazia cristiana riterrà opportuno.

Un tempo che giunge fino ai primi anni Ottanta, fino a quando cioè la"minaccia" rappresentata dal Partito comunista svanisce per le mutate condizioni internazionali e per la pochezza dei di­rigenti comunisti italiani incapaci ormai di distinguersi dai lo­ro colleghi degli altri partiti, sul piano morale ed ideale.
Ex comunista debitamente riprogrammato come atlantista