Con il permesso dell’intervistato, riproduciamo qui l’intervista di Adolfo Morganti al giornalista Paolo Facciotto in occasione della morte, sulle cui modalità non mi pronuncio, di John Kleeves:
SOTTO PSEUDONIMO PER COPRIRSI – La storia di Anelli-Kleeves raccontata dal suo editore
RIMINI – Kleeves è un plurale che non si trova nei vocabolari d’inglese. Ma chi ha conosciuto e frequentato Stefano Anelli, sa che cosa significa: l’ingegnere riminese aveva scelto il suo cognome d’arte, prendendo un termine che in una parlata locale degli States è traducibile come “anellini”. Insomma John Kleeves, lo pseudonimo usato per firmare i libri di denuncia contro la politica imperialistica degli Usa, voleva ricordare in qualche modo la sua vera identità anagrafica. Ce lo ha spiegato Adolfo Morganti, fondatore e leader della casa editrice Il Cerchio, che ha avuto dal 1990 in poi, fino a circa due anni fa, una frequentazione abituale con l’Anelli studioso e scrittore.
Dottor Morganti, come lo ha conosciuto?
“Alla fine del 1990, quando era appena tornato dagli Stati Uniti. In America aveva lavorato come ingegnere. Si era sposato con una donna ingegnere che lavorava in un laboratorio di ricerca dell’aeronautica militare Usa a Pensacola, ricordo il grado, sergente. Mi disse che era un iscritto al Partito Comunista Americano”.
Come arrivò alla casa editrice?
“Mi fu portato da un suo amico, un giovane che era vicesindaco del Pci di un paese del nostro entroterra, Verucchio se non sbaglio. Aveva pronto il testo di quello che sarebbe diventato il suo primo libro, «Vecchi trucchi», che era parte di un dattiloscritto enorme, un suo studio di 2.500 pagine suddivise in 5-6 fascicoli rilegati in rosso. Erano le sue ricerche sugli Stati Uniti d’America, fatte sul campo. Aveva proposto questa pubblicazione alla Manifesto Libri, ma questa cerchia di intellettuali, la’sinistra al caviale’, rispose picche. Non se la sentivano. Noi avevamo appena pubblicato un libro di Noam Chomsky sulla politica Usa di controllo degli stati sudamericani, quindi eravamo in tema. Facemmo qualche verifica sul testo, i riferimenti bibliografici, numerosi, erano validi e così pubblicammo il libro. Fu una piccola ‘bomba’. Anelli era un personaggio particolarissimo, molto sicuro di sé e delle sue affermazioni. La tesi centrale del libro è quella del traffico della droga, ‘gestito’ dalla Cia sui due filoni, cocaina e eroina, con due finalità, controllare i regimi dittatoriali e creare fondi neri per la Cia stessa. Dopo qualche anno San Patrignano, sempre molto attenta a questi temi, mi chiese una sintesi del libro, che io feci e fu pubblicata sulla rivista della comunità. Argomenti che all’epoca erano nuovi, nessuno pubblicava, ma che vennero confermati ad esempio dallo scoppio del caso Noriega”.
Perché lo pseudonimo?
“Anelli vivendo negli Usa era rimasto colpito da questa mentalità che oggi chiameremmo fondamentalista, di ispirazione veterotestamentaria, che in realtà è una fusione fra un messianismo secolarizzato e la ricerca del potere. Lo pseudonimo era un modo per coprirsi”.
Temeva che qualcuno potesse “inseguirlo” per le sue tesi?
“Sì. Quanto al nome, mi disse che kleeves era un termine dialettale che significa ‘anellini’. Da quel colossale faldone poi trasse i libri seguenti. Il secondo fatto con noi, «Sacrifici umani», affronta questa lettura fondamentalista americana del ‘bene contro il male’. Era la prima volta che qualcuno svelava gli studi tecnici di Douhet da cui nacquero i bombardamenti a tappeto, ‘strategici’, della guerra totale. Il libro ebbe un buon successo. E sullo pseudonimo tutti ci cascarono, qualcuno addirittura si inventò un’immaginaria edizione americana di «Old Tricks», «Vecchi trucchi» appunto, per dimostrare di saperne di più di altri…”.
Qual’era il pensiero di Anelli-Kleeves?
“Aveva una struttura di pensiero particolare: prendeva quello che lo colpiva, e lo approfondiva con notevole acribia, facendo scavi, carotaggi. Proveniva dal classico comunismo reattivo, anche se non era marxista in senso stretto: se gli Usa erano Atene, lui sperava in una Sparta. Quando tornò in Italia, era convinto di poter trovare una realtà alternativa agli Usa. Ma trovò Rimini…è inutile dire altro. Il fatto che non avesse mai avuto nessun tipo di interesse religioso spiega la china che poi ha preso. Si lamentava dell’indifferenza attorno ai suoi studi, di una serie di boicottaggi subìti, come interviste saltate e cose di questo genere. Viveva ritiratissimo. Poi intraprese un certo tunnel mentale: l’Italia, bisogna riconoscerlo, è sempre rimasta una semi-colonia degli Usa, con ogni governo. Così si è sempre più chiuso in un orizzonte mentale dove l’assenza di un senso religioso e spirituale, lo ha portato ad una deriva di tipo paranoide. Si sentiva molto frustrato. Questo era un mondo in cui non si trovava: non avendo nessuna alternativa, neanche a livello spirituale, a un certo punto è imploso, e poi la violenza è esplosa”.
Aveva scatti violenti?
“Mai. Si infervorava nelle discussioni, ma niente di più. Penso che al momento di questa esplosione di violenza fosse incapace di intendere e di volere”.
E le armi?
“Se le è autocostruite quando era già entrato nel tunnel mentale. È molto “americana” questa forma di paranoia. Ha odiato tutta la vita gli Usa ma non se n’è mai liberato”.
Rimangono ancora degli interrogativi sulla doppia tragedia di venerdì scorso. Perché colpire proprio la nipote, persona con cui andava d’accordo? Morganti, che ricordiamo è psicologo di professione, lascia intendere che chi crede di combattere contro il nemico, spesso finisce per identificarlo nella persona a lui più vicina. Ma qui finisce il colloquio con l’editore riminese di Anelli, che – va sottolineato – non crede a una visione alternativa dei fatti. Nessun assassinio mascherato da suicidio. Intanto arrivano da tutta Italia richieste di acquisto dei libri di John Kleeves.
Paolo Facciotto