La fame di Gaza


LE FAMIGLIE DI GAZA RIDOTTE A UN PASTO AL GIORNO

Di Erin Cunningham, The Electronic Intifada, 13 Maggio 2009[1]

GAZA CITY, Striscia di Gaza occupata (IPS) – Umm Abdullah non riesce a ricordare l’ultima volta che è riuscita a nutrire i suoi otto figli. Lei sa che nella settimana appena trascorsa, ogni giorno, l’unico cibo che ha cucinato per loro consisteva solo di lenticchie. E così, fino a quando ha ricevuto dei buoni di soccorso delle Nazioni Unite, che ha poi venduto per comprare pomodori e melanzane nel locale mercato.

Umm Abdullah è una sarta di 42 anni e viene da Jabaliya, un angusto campo profughi alla periferia di Gaza City. Storie come la sua sono normali nella Striscia di Gaza, dove anni di sanzioni, assedi e - ora - guerre, hanno massacrato l’economia del territorio e hanno posto molti generi di prima necessità fuori della portata della maggioranza della popolazione.

“Viviamo alla giornata, niente di più”, dice Umm Abdullah, che ha guadagnato meno di tre dollari negli ultimi tre giorni. “Se possiamo mangiare una volta al giorno, per noi è già molto”.

Mentre i prezzi del cibo e di altri beni sono diminuiti rispetto ai picchi raggiunti durante l’attacco israeliano durato tre settimane, il World Food Program (WFP) riferisce che un certo numero di generi, molti dei quali fondamentali, rimangono più cari per gli abitanti di Gaza di quanto fossero prima degli attacchi.

Zucchero, riso, cipolle, cetrioli, pomodori, limoni, peperoni, polli, carne, pesce e aglio erano tutti più cari nel Marzo del 2009 rispetto al Dicembre del 2008, dice il WFP.

Il prezzo dei peperoni al chilo è raddoppiato, mentre il costo delle cipolle è aumentato del 33%. I polli freschi sono ora più cari del 43% rispetto a prima degli attacchi, e questa è una conseguenza della distruzione, avvenuta nel corso degli attacchi, di un certo numero di aziende produttrici di pollame.

A Gaza, la decimazione dei terreni destinati all’agricoltura, come pure degli allevamenti di bovini e pecore, ha aumentato la crescente precarietà del cibo.

Ma la guerra ha solo aggravato una situazione umanitaria già terribile, dicono gli economisti, situazione che ha le sue radici nell’assedio economico di Israele, che nel Giugno del 2007 ha chiuso ermeticamente i confini di Gaza.

La penuria di quasi tutti i beni “essenziali” e il flusso di una quantità risibile di carburante ha fatto andare alle stelle, negli ultimi due anni, i prezzi del cibo e di altri prodotti, rendendoli inavvicinabili per molte famiglie della Striscia.

Secondo l’International Monetary Fund (IMF) il prezzo del cibo disponibile a Gaza registrato dall’indice del costo della vita (CPI) – un indicatore economico utilizzato per misurare il prezzo medio dei beni e dei servizi comprati dalle famiglie – è aumentato nel 2008 del 28%.

In Israele, al confronto, l’analogo segmento del CPI è aumentato di meno del 5% dal Marzo del 2008 al Marzo del 2009, riferisce il Central Bureau of Statistics [Ufficio Centrale di Statistica] di Israele.

“Un tasso negativo di crescita economica associato ad un’estrema penuria di beni sta provocando quella che chiamiamo la stagflazione di Gaza, ed è quello che sta dietro i prezzi alti”, dice il dr. Ibrahim Hantash, del Palestine Economic Policy Research Institute.

“Anche il contrabbando dilagante manda alle stelle i prezzi dei beni di prima necessità, perché non c’è controllo. E’ tutto mercato nero”.

Dopo la guerra, la maggioranza dei gazani vive ora sotto la fascia di reddito della povertà, dice l’UNDP (United Nations Development Program). Esso definisce tale fascia con 500 dollari al mese per una famiglia di sei membri.

Più della metà delle famiglie che vivono sotto la fascia di povertà vivono in condizioni estreme di privazione, con meno di 250 dollari al mese, equivalenti a circa 1.35 dollari a persona al giorno.

E poiché la maggior parte delle famiglie di Gaza spendono la maggior parte del loro reddito residuo in cibo, dice l’IMF, il 75% della popolazione è stata costretta a ridurre la quantità di cibo che compra, mentre l’89% ne ha ridotto la qualità.

Questo significa che molte famiglie, come quella di Umm Abdullah, hanno dovuto rinunciare a certe fonti di proteine, come la carne e le uova.

“I gazani subiscono una mancanza acuta di nutritivi, di cibo prodotto localmente e abbordabile”, dice un rapporto diffuso a Marzo dal WFP e dalla FAO.

I gazani hanno ridotto di conseguenza la loro quantità quotidiana di calorie, soprattutto perché non mangiano più cose come la carne rossa, il riso, gli oli vegetali e i grassi, la frutta e i latticini – e tutto ciò porta a scompensi nutritivi come l’anemia, dice il rapporto.

Jalal Ataf al-Masari gestisce da 10 anni un chiosco di frutta nel cuore dell’affollato campo profughi di Beach, a Gaza City, e dice che non ha mai visto i prezzi così alti e il guadagno così basso.

“All’inizio dell’assedio, solo i poveri avevano smesso di comprare la frutta”, dice al-Masari. “Adesso non la compra più nessuno. La vita è andata sempre peggiorando”.

Un chilo di banane, nel negozio di al-Masari, costa sei shekel, o 1.45 dollari. Le mele importate da Israele costano 5 shekel, o 1.20 dollari al chilo. Prima dell’assedio, dice al-Masari, si potevano comprare 3 chili di mele per 10 shekel, o 2.42 dollari.

Ora, al mercato non ci sono neppure le pere, le pesche e i kiwi. Molti dei “supermercati” di Gaza contengono scaffali forniti di riso distribuito dalle Nazioni Unite, olio alimentare donato dalla UE, qualche alimento in scatola e sacchetti di plastica contenenti farina, sale e lenticchie.

“Ho a che fare con questo assedio da due anni, e ancora non riesco a credere a quanto tutto sia diventato caro”, dice al-Masari. “E’ più caro che in America”.

Il WFP dice che i residenti di Gaza stanno ricorrendo a certi espedienti per tenersi a galla, inclusa la vendita di gioielli o di proprietà, il comprare cibo a credito e chiedere prestiti agli amici e ai familiari.

Soha Kaloub, madre di otto figli e moglie di un poliziotto il cui salario è stato tagliato dall’Autorità Palestinese di Ramallah, racconta – dalla sua spoglia abitazione nel campo profughi di Beach – che sono stati costretti a vendere tutti i loro mobili per comprare cibo.

Soha non può permettersi di riempire la bombola da sei chili del gas da cucina, che le costerebbe sei dollari, così usa un piccolo fornello a cherosene risalente all’era del governo ottomano tra la fine dell’800 e l’inizio del ‘900.

Per i suoi figli cucina di solito fagioli o lenticchie, qualche volta verdura. “Per nove mesi non abbiamo potuto avere ne carne ne polli. Il frigorifero è vuoto, le nostre vite sono vuote”, dice Soha. “Prima dell’assedio non era un paradiso, ma si stava meglio. Almeno avevamo qualcosa”.
[1] Traduzione di Andrea Carancini. Il testo originale è disponibile all’indirizzo: http://electronicintifada.net/v2/article10526.shtml