Monaco 1938, presunto summit dell'infamia


UN AMICUS BRIEF[1] PER NEVILLE

Di Patrick J. Buchanan[2]

Il 30 Settembre del 1938, 70 anni fa, Neville Chamberlain andò a far visita ad Adolf Hitler nella sua residenza di Monaco, raccolse la sua firma su una dichiarazione di tre frasi, e volò a casa all’aerodromo di Heston.

“Ce l’ho”, gridò a Lord Halifax. “Abbiamo una carta con la sua firma”. Su richiesta di Giorgio VI, Chamberlain venne condotto a Buckingham Palace, dove si unì al re sul balcone per ricevere le acclamazioni della folla sottostante. Un onore senza precedenti.

Poi fu la volta del n°10 di Downing Street, dove, ai cori che intonavano “For He’s a Jolly Good Fellows”, Chamberlain rispose: “Questa è la seconda volta nella nostra storia che la pace è tornata a Downing Street, dalla Germania, con onore. Credo che sia la pace della nostra epoca”.

Questo fu Monaco, il summit dell’infamia, evocato senza fine come l’esempio da manuale di come le concessioni codarde portino a guerre disperate.

Ecco il grande mito. E come tutti i miti, c’è del vero in esso.

Chamberlain aveva in realtà trasferito la sovranità sui Sudeti dalla Cecoslovacchia alla Germania, per non rischiare una nuova guerra come quella del 1914-1918, che aveva richiesto la perdita di 700.000 inglesi e di un milione e trecentomila francesi.

La modernità sputa sul nome di Neville Chamberlain. Esaminiamo però la situazione che il Primo Ministro inglese doveva affrontare quel Settembre.

I semi di Monaco era stati piantati alla Conferenza di Pace di Parigi del 1919, e nei trattati di Versailles, St. Germain, e Trianon.

Sebbene la Germania accettasse un armistizio basato sui 14 punti di Wilson e sul principio di autodeterminazione, milioni di tedeschi erano stati consegnati ad un governo straniero. Circa 3.25 milioni di tedeschi boemi (dei Sudeti) vennero consegnati al governo di Praga, come pure 2.5 milioni di slovacchi, 800.000 ungheresi, 500.000 ucraini e 150.000 polacchi.

I tedeschi sarebbero stati cittadini di “seconda classe”, disse il Presidente Masaryk al suo parlamento. Neppure un solo tedesco era presente all’Assemblea Nazionale che redasse la costituzione. Dalla minoranza tedesca vennero presentate ripetute proteste alla Società delle Nazioni – ma senza esito.

Lloyd George disse che i Cechi gli avevano mentito, a Parigi, quando gli avevano promesso di plasmare la Cecoslovacchia sul modello della Confederazione Svizzera, che prevede l’autonomia per le minoranze etniche.

Negli anni ’30, la maggior parte degli inglesi e il governo conservatore pensavano che ai tedeschi dei Sudeti fosse stata fatta un’ingiustizia, che doveva essere corretta dalla diplomazia, per evitare una nuova guerra.

Dopo che la Saar votò 90 a 10 per unirsi al Reich, e dopo che l’Austria venne annessa, i tedeschi dei Sudeti iniziarono a mobilitarsi per la secessione e per l’annessione alla Germania. E Chamberlain, come scrisse a sua sorella, “se ne infischiava se i Sudeti stavano fuori del Reich o dentro”. La questione non meritava una guerra europea o mondiale.

Se l’Inghilterra non era alleata con Praga, e non aveva nessun interesse vitale nell’Europa centro-orientale, dove l’esercito inglese non aveva mai combattuto, che ci faceva Chamberlain a Monaco?

Egli temeva che se fosse scoppiata la guerra tra i cechi e i tedeschi, e Praga avesse chiesto l’aiuto della Francia, l’esito poteva essere una guerra franco-tedesca, trascinandovi l’Inghilterra come era già successo nel 1914.

Tre volte, nel corso di quel Settembre, Chamberlain volò in Germania per negoziare il trasferimento pacifico delle province cecoslovacche nelle quali i tedeschi erano chiaramente maggioritari. Dopo il suo secondo viaggio, a Bad Godesberg, dove Hitler aveva minacciato di marciare, Chamberlain aveva ordinato la mobilitazione della flotta.

Hitler fece marcia indietro e spronò Chamberlain a continuare il suo tentativo negoziale, che venne formalizzato a Monaco.

Perché Chamberlain non disse a Praga di sfidare Hitler, e non impegnò l’Inghilterra a combattere per dei Sudeti cecoslovacchi?

Perché l’Inghilterra era totalmente impreparata alla guerra. Gli inglesi non avevano in Francia una sola divisione, non avevano Spitfire, non avevano la leva militare, e non avevano alleati, tranne la Francia. Gli alleati dell’Inghilterra della prima guerra mondiale non c’erano più. L’Italia stava con Hitler. Il Giappone adesso era ostile. La Russia era caduta in mano al bolscevismo. Il Canada, la Nuova Zelanda, l’Australia e il Sud Africa non avevano voglia di combattere, se il problema era di tenere i tedeschi sotto il dominio cecoslovacco.

E gli americani erano tornati a casa. In realtà, Roosevelt aveva ammonito: “Quelli che contano sull’aiuto assicurato degli Stati Uniti, in caso di guerra in Europa, sbagliano di grosso”. I collaboratori di Roosevelt informarono Parigi che, se fosse scoppiata la guerra, l’America, in base alle leggi sulla neutralità, non avrebbe consegnato alla Francia neppure gli aerei che quest’ultima aveva già acquistato.

Perché l’Inghilterra avrebbe dovuto dichiarare una guerra che non poteva vincere per una causa – il controllo cecoslovacco di 3.5 milioni di tedeschi – in cui non credeva, una guerra che avrebbe portato a morte sicura milioni di persone e alla rovina dell’Inghilterra?

Noi americani non siamo andati in guerra per i cecoslovacchi nel 1938, o per i polacchi nel 1939, o per i francesi nel 1940, o per gli ungheresi nel 1956. Il mese scorso, la Russia è entrata in Abkhazia e nell’Ossezia del Sud – i Sudeti della Georgia. Abbiamo dichiarato guerra?

Se le maggioranze di russi nell’Ucraina dell’est o in Crimea reclamano il diritto di secedere e di ritornare alla Madre Russia, andremo in guerra per tenere questi milioni di russi sotto il controllo ucraino?

Se non ci andremo, su quali basi ci fondiamo per condannare Chamberlain?

Il fallimento di Chamberlain fu che si fidò di Hitler a Monaco, come il suo grande rivale Winston Churchill si sarebbe fidato di Joseph Stalin a Mosca, a Teheran e a Yalta.

[1] Un amicus brief, nei paesi anglosassoni, è una memoria difensiva presentata da un esterno in un procedimento penale, quando l’esterno in questione è in qualche modo interessato all’esito del procedimento stesso.
[2] Traduzione di Andrea Carancini. Il testo originale è disponibile all’indirizzo: http://www.antiwar.com/pat/?articleid=13526