Una conferenza di Mark Weber


IL MITO DELLA SECONDA GUERRA MONDIALE COMEGUERRA BUONA

Di Mark Weber, 24 Maggio 2008[1]

La seconda guerra mondiale non è stata solo il più grande conflitto militare della storia, è stata anche la più importante guerra americana del ventesimo secolo. Ha portato negli Stati Uniti cambiamenti sociali, politici e culturali profondi e permanenti, e ha avuto una grande influenza su come gli americani considerano sé stessi e il posto del loro paese nel mondo.

Questo scontro globale – con gli Stati Uniti e gli altri “Alleati” da un lato, e la Germania nazista, il Giappone imperiale e gli altri paesi dell’”Asse” dall’altro – viene ordinariamente dipinto negli Stati Uniti come la “guerra buona”, un conflitto moralmente ben definito tra il Bene e il Male.[2]

Secondo l’opinione dello scrittore e storico inglese Paul Addison, “la guerra ha nutrito una generazione di inglesi e di americani come un mito che custodiva la loro sostanziale purezza, come una parabola del bene e del male”.[3] Dwight Eisenhower, il Comandante in Capo delle forze americane in Europa durante la guerra, e in seguito presidente degli Stati Uniti per otto anni, definì la lotta contro la Germania nazista come “la Grande Crociata”.[4] Il Presidente Bill Clinton ha poi detto che nella seconda guerra mondiale gli Stati Uniti “hanno salvato il mondo dalla tirannia”.[5] E’ stato anche detto agli americani che questa fu una guerra inevitabile e necessaria, che gli Stati Uniti dovettero intraprendere per evitare di essere schiavizzati da dittatori crudeli e spietati.

Qualunque dubbio o sospetto gli americani possano avere avuto sul ruolo del loro paese in Iraq, in Vietnam, o in altri conflitti oltreoceano, la maggioranza accetta che i sacrifici fatti dagli Stati Uniti nella seconda guerra mondiale, specialmente per sconfiggere la Germania di Hitler, furono interamente giustificabili e convenienti.

Per più di 60 anni, quest’opinione è stata rafforzata in numerosissimi film, alla televisione, dagli insegnanti, nei libri di testo, e dai leader politici. Il modo reverenziale con cui è stato raffigurato il ruolo degli Stati Uniti nella guerra ha spinto Bruce Russett, professore di Scienze Politiche all’Università di Yale, a scrivere:

“La partecipazione alla guerra contro Hitler viene considerata praticamente sacrosanta, situata quasi nel regno della teologia...Qualunque critica venga fatta alla politica americana del ventesimo secolo, la partecipazione degli Stati Uniti alla seconda guerra mondiale ne rimane quasi immune. Secondo la nostra mitologia nazionale, fu una “guerra buona”, una delle poche in cui i benefici hanno sopravanzato chiaramente i costi. Tranne pochi libri, pubblicati poco dopo la guerra e rapidamente dimenticati, questa forma di ortodossia è rimasta fondamentalmente incontrastata”.[6]

Quanto è esatto questo venerato ritratto del ruolo dell’America nella seconda guerra mondiale? Come stiamo per vedere, esso non regge ad un esame accurato.

Prima di tutto, diamo uno sguardo allo scoppio della guerra in Europa.

Quando i leader di Inghilterra e Francia dichiararono guerra alla Germania, il 3 Settembre del 1939, annunciarono di agire in tal modo perché le forze militari tedesche avevano attaccato la Polonia, minacciando perciò l’indipendenza polacca. Muovendo guerra alla Germania, i leader inglesi e francesi trasformarono quello che allora era uno scontro di due giorni, geograficamente limitato, tra Germania e Polonia, in un conflitto continentale, di portata europea.

Divenne chiaro molto presto che la giustificazione anglo-francese per l’entrata in guerra non era sincera. Quando le forze sovietiche attaccarono la Polonia da Est due settimane dopo, impadronendosi definitivamente di una quantità persino maggiore di territorio polacco rispetto ai tedeschi, i leader di Inghilterra e Francia non dichiararono guerra all’Unione Sovietica. E per quanto Inghilterra e Francia fossero presuntamente entrate in guerra per proteggere l’indipendenza polacca, alla fine dei combattimenti – nel 1945 – dopo cinque anni e mezzo di lutti e sofferenze orribili, la Polonia non era ancora libera, ma era invece sotto il dominio brutale dell’Unione Sovietica.

Sir Basil Liddell Hart, un importante storico militare inglese specialista del novecento, espone tale verità nel modo seguente:

“Gli Alleati occidentali entrarono in guerra con un duplice obbiettivo. Lo scopo immediato era quello di mantenere la loro promessa di preservare l’indipendenza della Polonia. Lo scopo ultimo era quello di rimuovere una minaccia potenziale per loro stessi, e salvaguardare perciò la loro stessa sicurezza. Il risultato fu che fallirono in entrambi gli scopi. Non solo fallirono in primo luogo nell’impedire che la Polonia venisse conquistata e divisa tra Germania e Russia, ma dopo sei anni di guerra terminata in una vittoria apparente, furono costretti a rassegnarsi al dominio russo sulla Polonia – abbandonando ai loro guai i polacchi che avevano combattuto al loro fianco”.[7]

Nel 1940, poco dopo essere stato nominato primo ministro, Winston Churchill disse chiaramente, in due discorsi spesso citati, le sue ragioni per continuare la guerra contro la Germania. Nel suo famoso discorso denominato “Sangue, sudore e lacrime”, il grande leader inglese disse che se la Germania non fosse stata sconfitta non vi sarebbe stata “sopravvivenza per l’Impero inglese, né per tutto quello che l’Impero inglese aveva rappresentato”. Poche settimane dopo, nel suo discorso dell’”Ora più bella”, Churchill disse: “Da questa battaglia dipende la sopravvivenza della civiltà cristiana, la nostra stessa vita inglese e la continuità delle nostre istituzioni e del nostro Impero”.[8]

Come suonano strane oggi queste parole! Anche ammesso che l’Inghilterra abbia presuntamente “vinto”, o che almeno abbia fatto parte dello schieramento vincente della guerra, l’Impero inglese appartiene ormai al passato. Nessun leader inglese oserebbe difendere oggi i risultati spesso brutali dell’imperialismo inglese, inclusi i bombardamenti e le uccisioni effettuati per mantenere lo sfruttamento coloniale di milioni di persone in Asia e in Africa. Né alcun leader inglese oserebbe oggi giustificare l’uccisione di persone per difendere la “civiltà cristiana”, se non altro per paura di offendere la popolazione inglese non cristiana, numerosa e in rapida crescita.

Agli americani piace credere che i “bravi ragazzi” vincono e i “cattivi” perdono, e, nelle vicende internazionali, che i paesi “buoni” vincono le guerre, e che i “paesi cattivi” le perdono. In base a quest’opinione, gli americani sono portati a credere che il ruolo degli Stati Uniti nell’avere sconfitto la Germania e il Giappone ha dimostrato la giustezza dell’”American Way” e la superiorità della nostra società e della nostra forma di governo.

Ma sarebbe più esatto dire che l’esito della guerra ha mostrato la giustezza della “Soviet Way”, e la superiorità, sia politica che sociale, del comunismo sovietico. In realtà, per decenni, tale superiorità ha costituito l’orgogliosa rivendicazione dei leader di Mosca. Come un libro sovietico di storia, pubblicato negli anni ’70, ha detto:

“La guerra ha dimostrato la superiorità del sistema sociale e statale socialista sovietico…La guerra ha dimostrato inoltre l’unità politica e sociale del popolo sovietico…Ancora una volta è stato sottovalutato il significato del ruolo organizzativo e direttivo del Partito Comunista nella società socialista. Il Partito Comunista ha unito milioni di persone nella loro lotta contro gli aggressori fascisti…La dedizione altruista dimostrata dal Partito Comunista durante gli anni di guerra ha ulteriormente cementato la fiducia, il rispetto, e l’amore che intercorrono nel popolo sovietico.[9]

In effetti, la Germania di Hitler venne sconfitta, innanzitutto e soprattutto, dall’Unione Sovietica. Circa il 70/80% delle forze di combattimento tedesche vennero distrutte dall’esercito sovietico sul fronte orientale. Lo sbarco del D-Day in Francia, da parte delle forze americane e inglesi, che è spesso dipinto negli Stati Uniti come un attacco cruciale contro la Germania nazista, venne intrapreso nel Giugno del 1944 – vale a dire meno di un anno prima della fine della guerra in Europa, e qualche mese dopo le grandi vittorie militari sovietiche a Stalingrado e a Kursk, che furono decisive per la sconfitta della Germania.[10]

Quali furono gli scopi degli americani nella seconda guerra mondiale, e quanto vittoriosi sono stati gli Stati Uniti nel conseguirli?

Nel 1941, il presidente Roosevelt, insieme al primo ministro inglese Winston Churchill, rilasciò una dichiarazione formale degli scopi di guerra degli Alleati, la famosa “Carta Atlantica”. In essa, gli Stati Uniti e l’Inghilterra dichiararono che non cercavano “nessun cambiamento territoriale che non fosse in accordo con i desideri liberamente espressi dei popoli interessati”, che avrebbero rispettato “il diritto di tutti i popoli a scegliere la forma di governo sotto cui dovranno vivere”, e che avrebbero lottato “per vedere ripristinati i diritti di sovranità e di autodeterminazione di coloro che ne erano stati forzosamente privati”.

Divenne presto evidente, tuttavia, che questa promessa solenne di libertà e di autodeterminazione per “tutti i popoli” era poco più di vuota propaganda.[11] Tutto ciò non è certo sorprendente, dato che i due alleati militari più importanti dell’America nella guerra erano l’Inghilterra e l’Unione Sovietica – vale a dire la più grande potenza imperialista del mondo e la tirannia più crudele.

Allo scoppio della guerra nel 1939, l’Inghilterra guidava il più grande impero coloniale della storia, dominando contro la loro volontà un numero di milioni di persone
superiore a quello di ogni altro regime, prima e dopo di esso. Questo enorme impero includeva quelli che ora sono l’India, il Pakistan, il Bangladesh, la Malesia, la Nigeria, il Ghana, il Kenya, l’Uganda, la Tanzania, e il Sud Africa.

L’altra grande alleata di guerra dell’America, l’Unione Sovietica, fu – secondo ogni obbiettivo metro di giudizio – il regime più tirannico e oppressivo del suo tempo, e una dittatura molto più crudele della Germania di Hitler. Come gli storici riconoscono, le vittime del dittatore sovietico Stalin, oltrepassano largamente quelle che morirono come risultato della politica di Hitler. Robert Conquest, un eminente studioso della storia sovietica del novecento, valuta che il numero di coloro che persero le loro vite in conseguenza della politica di Stalin in “non meno di 20 milioni”.[12]

Durante la guerra gli Stati Uniti aiutarono in modo considerevole a preservare la tirannia di Stalin, e ad aiutare l’Unione Sovietica a opprimere ulteriori milioni di europei, mentre aiutavano anche l’Inghilterra a conservare o a ristabilire il suo dominio imperiale su molti milioni di persone in Asia e in Africa.[13]

Paul Fussell, professore all’Università di Pennsylvania, che prestò servizio durante la guerra come tenente nell’esercito americano, scrisse nel suo acclamato libro Wartime che “La guerra degli Alleati è stata edulcorata e romanticizzata fino a renderla quasi irriconoscibile, dai sentimentali, dagli sciovinisti, dagli ignoranti e dai sanguinari”.[14]

Un aspetto importante di questa versione “edulcorata” è la credenza che mentre il regime nazista era responsabile di molte terribili atrocità e crimini di guerra, gli Alleati, e specialmente gli Stati Uniti, intrapresero la guerra in modo umano. In realtà, il record di misfatti degli Alleati è assai lungo, e include i bombardamenti anglo-americani delle città tedesche - una campagna terroristica che tolse la vita a più di mezzo milione di civili - la “pulizia etnica” genocida di milioni di civili nell’Europa orientale e centrale, e il maltrattamento postbellico su vasta scala dei prigionieri tedeschi.[15]

Dopo “quaranta mesi di incombenze di guerra e cinque battaglie campali” in cui Edgar L. Jones prestò servizio come “guidatore di ambulanza, marinaio, storico militare e corrispondente di guerra”, egli scrisse un articolo dissipando alcuni miti sul ruolo degli americani nella guerra. “Che genere di guerra i civili pensano che abbiamo combattuto?”, disse ai lettori del mensile The Atlantic. “Abbiamo sparato a prigionieri a sangue freddo, distrutto ospedali, mitragliato scialuppe di salvataggio, ucciso o maltrattato civili di nazioni nemiche, ucciso i nemici feriti, seppellito i moribondi in una fossa insieme ai morti, e nel Pacifico abbiamo bollito i teschi dei nemici per farne ornamenti da tavola per fidanzati, o intagliato le loro ossa per ricavarne tagliacarte”.[16]

Poco dopo la fine della guerra, le potenze vittoriose misero i leader tedeschi di guerra sotto processo per crimini di guerra e crimini contro l’umanità. Agendo in tal modo, gli Stati Uniti e i suoi alleati giudicarono i leader tedeschi in base a un metro di giudizio che essi stessi non avevano rispettato.

Il giudice della Corte Suprema degli Stati Uniti, Robert Jackson, non fu il solo funzionario americano di alto rango a riconoscere, almeno in privato, che la tesi che il comportamento degli Alleati fosse improntato ai criteri della sola giustizia era un mero pretesto. In una lettera al Presidente, scritta mentre stava prestando servizio come Procuratore Capo degli Stati Uniti al grande processo di Norimberga del 1945-1946, Jackson riconobbe che gli Alleati “hanno fatto o stanno facendo alcune delle stesse cose per le quali stiamo processando i tedeschi. I francesi stanno violando a tal punto la Convenzione di Ginevra nel trattamento dei prigionieri di guerra [tedeschi] che il nostro comando si sta riprendendo i prigionieri loro inviati [per i lavori forzati in Francia]. Stiamo processando i saccheggi, e i nostri Alleati li stanno facendo. Diciamo che la guerra aggressiva è un crimine, e uno dei nostri alleati rivendica la sovranità sugli Stati Baltici unicamente in base al diritto di conquista”.[17]

Alla conclusione del processo di Norimberga del 1945-1946, l’autorevole settimanale inglese The Economist citò i crimini dei sovietici, aggiungendo: “Né il mondo occidentale dovrebbe consolarsi che solo i russi rimangano condannati alla sbarra della giustizia degli Alleati”. L’editoriale dell’Economist proseguiva:

“…Tra i crimini contro l’umanità figurano i bombardamenti indiscriminati delle popolazioni civili. Possono gli americani, che hanno sganciato la bomba atomica, e gli inglesi, che hanno distrutto le città della Germania occidentale, dichiararsi “non colpevoli” a questo riguardo? I crimini contro l’umanità includono anche l’espulsione di massa delle popolazioni. Possono i leader anglosassoni, che a Potsdam sono passati sopra all’espulsione di milioni di tedeschi dalle loro case ritenersi completamente innocenti?...Le nazioni che siedono in giudizio [a Norimberga] si sono perciò proclamate chiaramente esenti dalla legge che hanno esercitato”.[18]

Un altro popolare pregiudizio americano è che i nemici di questo paese nella seconda guerra mondiale erano tutti dittature. In realtà, su entrambi i fronti c’erano regimi che erano repressivi o dittatoriali, come pure vi erano governi che godevano di vasto consenso popolare. Molti dei paesi alleati con gli Stati Uniti, erano guidati da governi che erano oppressivi, dittatoriali o comunque non democratici.[19] La Finlandia, che era una repubblica democratica, fu un importante alleato di guerra della Germania di Hitler.

In flagrante violazione dei loro stessi principi, solennemente proclamati, i capi di stato degli Stati Uniti, dell’Inghilterra e dell’Unione Sovietica si sbarazzarono di decine di milioni di persone senza alcun riguardo verso la loro volontà. La disonestà e il cinismo dei leader Alleati raggiunse forse il non plus ultra della spudoratezza nel famigerato “accordo delle percentuali” per dividere l’Europa sud-orientale. Nel corso di un incontro con Stalin nel 1944, Churchill propose che in Romania i sovietici avessero il 90% di influenza o di autorità, e il 75% in Bulgaria, e che l’Inghilterra avesse il 90% di influenza o controllo in Grecia. In Ungheria e in Yugoslavia, il leader inglese suggerì che ognuno avesse il 50 %. Churchill scrisse tutto questo su un foglio di carta, che porse a Stalin, il quale vi fece un segno di spunta e lo restituì. Churchill allora disse: “Non potrebbe essere considerato alquanto cinico se viene fuori che abbiamo liquidato queste questioni, così fatali per milioni di persone, così su due piedi? Bruciamo il foglio”. “No. Conservalo”, replicò Stalin.[20]

Per cementare la coalizione Alleata – conosciuta formalmente con la denominazione di “Nazioni Unite” – il Presidente Roosevelt, il Primo Ministro inglese Churchill, e il Premier sovietico Stalin si incontrarono in due occasioni: nel Novembre del 1943 a Teheran, nell’Iran occupato, e nel Febbraio del 1945 a Yalta, nella Crimea sovietica. I tre leader Alleati portarono a compimento l’obbiettivo per il conseguimento del quale avevano accusato i leader dell’Asse di cospirare: il dominio del mondo.

Durante un incontro a Washington nel 1942, il Presidente Roosevelt disse candidamente al ministro degli esteri sovietico che “gli Stati Uniti, l’Inghilterra, la Russia , e forse la Cina, dovrebbero sorvegliare il mondo e imporre il disarmo [di tutti gli altri] con le ispezioni”.[21]

Per assicurare il dominio globale delle potenze vittoriose dopo la guerra, i tre leader Alleati costituirono l’organizzazione delle Nazioni Unite, affinché fungesse da forza di polizia mondiale permanente. Dopo che la Germania e il Giappone furono sconfitti, tuttavia, entrarono in competizione fra loro, il che rese impossibile alle Nazioni Unite di funzionare come il Presidente Roosevelt aveva previsto. Mentre gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica cercarono per decenni di mantenere l’egemonia nelle propria sfera di influenza, le due “superpotenze” rivaleggiarono in una battaglia per la supremazia globale.

Nel suo libro, A People’s History of the United States, lo storico Howard Zinn ha scritto:

“I vincitori furono l’Unione Sovietica e gli Stati Uniti (c’erano anche l’Inghilterra, la Francia e la Cina nazionalista, ma erano deboli). Entrambi questi paesi si misero all’opera – senza svastiche, passi dell’oca, e senza un razzismo dichiarato ufficialmente, ma sotto la copertura del “socialismo” da un lato, e della “democrazia” dall’altro, per costruire i loro imperi. Procedettero a dividersi e a gareggiare l’uno con l’altro per il dominio del mondo, a costruire apparati militari molto più grandi di quelli che i paesi fascisti avevano costruito, a controllare i destini di un numero maggiore di paesi di quelli di cui Hitler, Mussolini e il Giappone erano stati capaci. Operarono anche per controllare i propri popoli, ogni paese con le sue tecniche – rozze in Unione Sovietica, sofisticate negli Stati Uniti – per assicurare il proprio dominio”.[22]

Gli Stati Uniti entrarono ufficialmente in guerra dopo l’attacco giapponese alla base navale americana di Pearl Harbor nelle Hawaii, il 7 Dicembre del 1941. Fino ad allora, gli Stati Uniti erano stati un paese ufficialmente neutrale, e la maggior parte degli americani voleva rimanere fuori dalla guerra che stava allora infuriando in Europa e in Asia. Nonostante lo status neutrale del paese, il Presidente Roosevelt e la sua amministrazione, insieme a molti media americani, spronarono il popolo americano a sostenere la guerra contro la Germania. Venne montata una campagna propagandistica su vasta scala per convincere gli americani che Hitler e i suoi “accoliti”, o le sue “orde”, stavano facendo ogni cosa in loro potere per conquistare e “schiavizzare” il mondo intero, e che la guerra contro la Germania di Hitler era inevitabile.

Come parte di questo sforzo, il Presidente e altri funzionari di alto rango diffusero fantasiose menzogne sui presunti piani di Hitler e del suo governo di attaccare gli Stati Uniti e di imporre una dittatura globale.[23]

Il record di menzogne del Presidente Roosevelt è riconosciuto persino dai suoi ammiratori. Tra quelli che hanno cercato di giustificare la sua politica c’è l’eminente storico americano Thomas A. Bailey, che ha scritto:

“Franklin Roosevelt ha ripetutamente ingannato il popolo americano durante il periodo precedente a Pearl Harbor…Fu come il medico che deve dire le bugie al paziente per il suo bene…Il paese era irresistibilmente orientato al non-intervento fino al giorno stesso di Pearl Harbor, e un aperto tentativo di condurre il popolo in guerra si sarebbe risolto in un sicuro fallimento e in una quasi certa estromissione di Roosevelt nel 1940, con una totale sconfitta dei suoi obbiettivi fondamentali”.[24]

Il professor Bailey continua evidenziando un quadro cinico della democrazia americana:

“Un presidente che non può esporre al popolo la verità tradisce una certa mancanza di fiducia nei principi basilari della democrazia. Ma poiché le masse sono notoriamente miopi e di solito non riescono a vedere il pericolo fino a quando non si para loro davanti, i nostri capi di stato sono costretti a ingannarle in vista dei loro interessi di lungo periodo. Chiaramente questo è ciò che Roosevelt dovette fare, e chi dirà che i posteri non lo ringrazieranno?”

Come parte della campagna intrapresa dal governo americano per spronare alla guerra, il Presidente Roosevelt ordinò nel 1941 alla Marina statunitense di aiutare le forze inglesi ad attaccare le navi tedesche nell’Atlantico. Questo provvedimento venne rafforzato da un ordine presidenziale alla Marina statunitense di “sparare a vista” contro le navi tedesche e italiane. L’obbiettivo di Roosevelt era quello di provocare un “incidente” che avrebbe fornito da pretesto per entrare in guerra. Hitler, da parte sua, era preoccupato di evitare conflitti con gli Stati Uniti. Il leader tedesco rispose alle provocazioni palesemente illegali del governo americano ordinando ai comandanti delle sue navi di evitare scontri con le navi americane.[25]

Parimenti in crassa violazione del diritto internazionale, il governo degli Stati Uniti – ufficialmente neutrale – fornì il massiccio aiuto denominato “Lend Lease Act” ai nemici della Germania, specialmente all’Inghilterra e al suo impero, come pure alla Russia sovietica.

Due eminenti storici americani, Allan Nevins e Henry Steele Commager, hanno evidenziato che:

“Questa misura [il Lend Lease Act del 1941] era chiaramente non neutrale, ma gli Stati Uniti, dediti ora a sconfiggere la Germania, non erano certo trattenuti dalle delicatezze del diritto internazionale. Seguirono altri atti, ugualmente non neutrali – il sequestro di imbarcazioni dell’Asse, il congelamento dei fondi dell’Asse, il trasferimento di carri armati all’Inghilterra, l’occupazione della Groenlandia e, a seguire, dell’Islanda, l’estensione del Lend-Lease al nuovo alleato – la Russia – e…l’ordine presidenziale di “sparare a vista” a tutti i sottomarini nemici”.[26]

Nell’opinione dello storico inglese J. F. C. Fuller, “il Presidente Roosevelt non lasciò nulla di intentato per provocare Hitler affinché dichiarasse guerra a quello stesso popolo cui egli [Roosevelt] aveva in modo così appassionato promesso la pace. Rifornì l’Inghilterra di cacciatorpediniere americane, inviò truppe americane in Islanda, e dispose il pattugliamento delle rotte atlantiche per salvaguardare le navi inglesi; questi erano tutti atti di guerra…Nonostante le sue molteplici dichiarazioni di voler tenere gli Stati Uniti fuori dalla guerra, era deciso a provocare qualche incidente che ne avrebbe provocato l’ingresso”.[27]

La politica dell’amministrazione Roosevelt fu a tal punto bellicosa e illegale che l’Ammiraglio Harold R. Stark, capo delle operazioni navali americane, riconobbe in un Memorandum confidenziale del Settembre del 1941 per il Presidente: “Lui [Hitler] avrebbe tutte le scuse del mondo per dichiararci guerra, se ne avesse l’intenzione”.[28]

Da un lato all’altro dell’Europa e dell’Asia, la seconda guerra mondiale portò stermini e morte per decine di milioni di uomini, donne e bambini, ed enormi sofferenze per un numero ancora maggiore. Gli americani, tuttavia, furono risparmiati dagli orrori dei bombardamenti su vasta scala, dai combattimenti sul proprio suolo natio, o dall’occupazione di truppe straniere.

Alla fine della guerra gli Stati Uniti erano la sola nazione importante a non essere stata sconvolta dal conflitto globale. Ne emerse anzi come la potenza finanziaria, militare ed economica dominante. Per gli Stati Uniti, la metà del secolo che va dal 1945 alla metà degli anni ’90 è stata un’era di crescita economica spettacolare e di statura globale incontrastata.

Lewis H. Lapham, scrittore e per anni direttore della rivista Harper’s, la descrive così:

“Nel 1945 gli Stati Uniti hanno ereditato la terra…Alla fine della seconda guerra mondiale, quello che era rimasto della civiltà occidentale passò sotto la responsabilità americana. La guerra aveva anche stimolato il paese a inventare una macchina economica miracolosa, che sembrava garantire qualunque desiderio. Gli Stati Uniti avevano scampato la peste della guerra ed era quindi facile per la loro discendenza credere di essere stata unta dal Signore”.[29]

Ma gli americani erano davvero in una posizione migliore che se fossero rimasti fuori dalla guerra? Tra coloro che non lo credono c’è il professor Bruce Russett, che ha scritto:

“La partecipazione americana alla seconda guerra mondiale ha avuto, da allora in poi, un effetto molto scarso sulla struttura essenziale della politica internazionale,
e probabilmente ha avuto uno scarso rilievo sia nel favorire il benessere materiale della maggior parte degli americani che nel rendere sicura la nazione rispetto a minacce militari straniere…In realtà, la maggior parte degli americani probabilmente non sarebbe stata peggio, e forse sarebbe stata un po’ meglio, se gli Stati Uniti non fossero diventati una nazione belligerante…Personalmente trovo difficile argomentare una preferenza netta a favore della Russia di Stalin contro la Germania di Hitler…In termini freddamente realisti, il nazismo – in quanto ideologia – fu quasi certamente meno pericoloso per gli Stati Uniti del comunismo”.[30]

Per quanto la Germania del Terzo Reich e il Giappone imperiale venissero distrutti, gli Stati Uniti e l’Inghilterra non riuscirono a raggiungere gli scopi politici proclamati dai loro leader. Nell’Agosto del 1945, il prestigioso settimanale inglese, The Economist, osservò: “Alla fine di un immane conflitto intrapreso per sconfiggere l’hitlerismo, gli Alleati stanno realizzando una pace hitleriana. Questa è la vera misura del loro fallimento”.[31]

Tra quelli che non furono felici sull’esito della guerra vi fu lo storico inglese Basil Liddell Hart, che scrisse:

“Tutto lo sforzo prodotto per distruggere la Germania hitleriana si risolse in un’Europa così devastata e indebolita che la sua forza di resistenza rimase assai ridotta di fronte ad una nuova e più grande minaccia – e l’Inghilterra, come i suoi vicini dell’Europa continentale, era bisognosa degli aiuti americani. Questa è la dura realtà sottostante alla vittoria perseguita in modo così speranzoso e raggiunta in modo tanto doloroso – dopo che il peso colossale della Russia unita agli Stati Uniti era stato messo sulla bilancia contro la Germania. Il risultato fece svanire l’ostinata illusione popolare che la “vittoria” abbia come conseguenza la pace. Esso confermò l’ammonimento delle passate esperienze che la vittoria “è un miraggio nel deserto” – il deserto che una lunga guerra produce, quando viene intrapresa con armi moderne e con metodi illimitati”.[32]

Persino Winston Churchill ebbe dei dubbi sull’esito della guerra. Tre anni dopo la fine delle ostilità, scrisse:

“La tragedia umana [della guerra] raggiunge il suo apice nel fatto che dopo tutti gli sforzi e i sacrifici di centinaia di milioni di persone e dopo la vittoria della Giusta Causa, ancora non abbiamo trovato Pace o Sicurezza, e ci troviamo sull’orlo di pericoli anche peggiori di quelli che abbiamo superato”.[33]

Alla fine della guerra l’Europa, per la prima volta nella sua storia, non era più padrona del suo destino, ma si trovava invece sotto il dominio di due grandi potenze extra-europee, gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica, che per ragioni politiche e ideologiche, non avevano particolari interessi, o preoccupazioni, per la cultura europea e la civiltà occidentale.[34]

Secondo Charles A. Lindbergh, il famoso scrittore e aviatore, la guerra fu un grande fattore di ritardo per l’Occidente. Venticinque anni dopo la fine del conflitto, egli scrisse:

“Vincemmo la guerra da un punto di vista militare; ma in un senso più ampio mi sembra che l’abbiamo perduta, perché la nostra civiltà occidentale è meno rispettata e sicura di prima. Per sconfiggere la Germania e il Giappone abbiamo sostenuto le minacce ancora più grandi della Russia e della Cina – che ora ci sfidano nell’era delle armi nucleari. La Polonia non è stata salvata…Gran parte della nostra cultura occidentale è stata distrutta. Abbiamo perso l’eredità genetica che si era formata attraverso cicli di molti milioni di vite…E’ pericolosamente possibile che la seconda guerra mondiale segni l’inizio del collasso della nostra civiltà occidentale, come già segna il collasso del più grande impero mai costruito dall’uomo”.[35]

Il risultato del ruolo americano e inglese nella guerra, spinse lo storico inglese J. F. C. Fuller a scrivere:

Cos’è che li convinse [Roosevelt e Churchill] ad adottare una politica così disastrosa? Osiamo rispondere così: l’odio cieco! I loro cuori presero il sopravvento sulle loro teste e le emozioni ottenebrarono loro il cervello. Per loro la guerra non era un conflitto politico nel normale significato delle parole, era un contrasto manicheo tra il Bene e il Male, e per portare il popolo dalla loro parte scatenarono una propaganda al vetriolo contro il diavolo che avevano evocato”.[36]

Persino dopo che sono passati così tanti anni, tale odio perdura. Le scuole americane, i media americani, le agenzie governative e i leader politici conducono da decenni una campagna di propaganda unilaterale e carica di emotività per difendere la mitologia nazionale della seconda guerra mondiale.

Il modo in cui una nazione guarda al passato non è un esercizio futile o meramente accademico. La nostra visione della storia informa profondamente le nostre azioni attuali, spesso con gravi conseguenze per il futuro. Trarre conclusioni dalla nostra comprensione del passato ci porta a intraprendere o a sostenere delle politiche che possono avere un grande impatto su molte vite.

La raffigurazione familiare americana della seconda guerra mondiale, e la mitologia della “guerra buona” e del ruolo avuto in essa dagli Stati Uniti, non è semplicemente cattiva storia. Ha aiutato in modo considerevole a sostenere e a giustificare una serie di arroganti avventure americane in politica estera, con conseguenze perniciose sia per l’America che per il resto del mondo.

“La seconda guerra mondiale ha deformato il modo in cui oggi guardiamo le cose”, ha detto il contrammiraglio americano Gene R. LaRoque, che partecipò a 13 grandi battaglie durante la guerra. “Guardiamo le cose con i canoni di quella guerra, che in un certo senso fu una guerra buona. Ma la memoria distorta di essa incoraggia gli uomini della mia generazione a essere desiderosi, persino bramosi, di usare dovunque la forza militare nel mondo”.[37]

Dal 1945, i presidenti americani hanno ripetutamente cercato di giustificare le azioni militari statunitensi in paesi stranieri richiamando la “guerra buona” e, in particolare, il ruolo degli Stati Uniti nella sconfitta della Germania. Durante gli anni ’60, il Presidente Lyndon Johnson cercò di guadagnare l’appoggio per la sua politica di guerra in Vietnam con descrizioni storicamente false della seconda guerra mondiale e della Germania di Hitler.[38]

Tutto ciò spinse lo storico Murray Rothbard a scrivere nel 1968:

“…La seconda guerra mondiale è l’ultimo mito di guerra rimasto, il mito cui la Vecchia Sinistra si aggrappa disperatamente: il mito che questa, almeno, è stata una guerra buona, che questa è stata una guerra in cui l’America aveva ragione. La seconda guerra mondiale è la guerra che ci viene sbattuta in faccia dall’establishment guerrafondaio mentre cerca, in ogni guerra che affrontiamo, di avvolgersi nel manto della buona e giusta seconda guerra mondiale”.[39]

In anni recenti, i leader politici americani hanno cercato di guadagnare il sostegno a guerre contro l’Iraq e l’Iran tracciando paralleli storici tra Hitler e i leader di questi due paesi mediorientali.

Molti americani sono comprensibilmente offesi dagli inganni e dalle falsità del Presidente George W. Bush e della sua amministrazione per ottenere il sostegno dell’opinione pubblica all’invasione statunitense dell’Iraq nel 2003. Ma come abbiamo visto, gli inganni presidenziali per giustificare una guerra non sono cominciati con lui. Gli americani che esprimono ammirazione per il ruolo statunitense nella seconda guerra mondiale, e per la leadership di Franklin Roosevelt, hanno poche ragioni per lamentarsi quando i presidenti seguono il suo esempio e conducono il paese in guerra infrangendo la legge, sovvertendo la Costituzione e mentendo al popolo.

Se la storia delle guerre e dei conflitti può insegnarci qualcosa, questo qualcosa è il pericolo dell’arroganza e della tracotanza – e cioè il pericolo di andare in guerra perché i leader di una nazione sono convinti della propria virtù, o hanno convinto sé stessi e l’opinione pubblica che un paese straniero deve essere attaccato perché il suo governo o la sua società non sono semplicemente estranei, ostili o minacciosi, ma perché incarnano “il male”.

Questa è forse l’eredità più perniciosa della mitologia nazionale americana sulla seconda guerra mondiale – la nozione che guerre necessarie o giustificabili vengono combattute contro paesi guidati da regimi presuntamente “malvagi”. Ed è questo stesso modo di vedere che ha spinto il Presidente George W. Bush a parlare della sua “guerra al terrorismo” come di una “crociata” e, in un importante discorso, a proclamare una politica estera statunitense consacrata a “porre fine alle tirannie del mondo”.[40]

Una nazione dovrebbe andare in guerra solo dopo aver fatto considerazioni improntate alla prudenza, dopo aver soppesato attentamente le possibili conseguenze, e solo in base alle ragioni più stringenti, dopo che tutte le alternative si sono esaurite, e quindi come estrema ratio. Tutto ciò è particolarmente vero dato lo spaventoso potere distruttivo degli armamenti moderni, e perché – come la seconda guerra mondiale, la “guerra buona”, attesta così tragicamente – le guerre raramente si evolvono nel modo che ci si aspetta.

Sull’autore

Mark Weber è il direttore dell’Institute for Historical Review. Ha studiato storia all’Università dell’Illinois, all’Università di Monaco, all’Università di Stato di Portland e all’Università dell’Indiana. Questo articolo è stato presentato come conferenza ad un incontro dell’IHR a Costa Mesa, in California, il 24 Maggio del 2008.



[1] Traduzione di Andrea Carancini. Il testo originale è disponibile all’indirizzo: http://www.ihr.org/news/weber_ww2_may08.html
[2] Studs Terkel, The Good War, New York, 1984, p. VI.
[3] P. Fussell, Wartime, 1989, pp. 164-165. In queste pagine Fussell cita anche Eric Severeid, un influente giornalista ed editorialista americano, il quale scrisse che la guerra era “assolutamente” una “gara tra il bene e il male”.
[4] Dichiarazione di Eisenhower del 6 Giugno 1944, rilasciata congiuntamente all’invasione del D-Day.
[5] Secondo discorso inaugurale di Clinton, 20 Gennaio 1997. Vedi: Mark Weber, The Danger of Historical Lies: President’s Clinton Distortion of History, disponibile in rete all’indirizzo: http://www.ihr.org/jhr/v16/v16n3p-2_Weber.html
[6] B. M. Russett, No Clear and Present Danger, 1972, pp. 12, 17.
[7] Basil H. Liddell Hart, History of the Second World War, New York, 1971, p. 3.
[8] Discorsi di Churchill del 13 Maggio 1940 e del 18 Giugno 1940.
[9] K. Gusev, V. Naumov, The USSR: A Short History, Mosca, 1976, p. 239.
[10] N. Davies, No Simple Victory, 2007, pp. 24, 25, 276, 484-485; John Erickson, The Road to Berlin, Yale University Press, 1999, p. IX (Prefazione); le perdite sovietiche nell’offensiva di tre settimane condotta contro Berlino dal16 Aprile all’8 Maggio del 1945, è stato calcolato, furono più grandi del totale dei morti americani nella seconda guerra mondiale, e più grandi delle perdite degli Alleati occidentali in tutto il 1945. H. P. Wilmott, The Great Crusade: A New Complete History of the Second World War, New York, 1990, p. 452; secondo l’opinione dello storico John Lucas: “La loro resistenza [quella dei russi sovietici] e la loro vittoria sulla Germania è stato il loro risultato più grande – anzi, l’unico risultato davvero grande – nei 74 anni del comunismo sovietico”. John Lucas, The End of the Twentieth Century and the End of the Modern Age, New York, 1993, p. 55.
[11] Lo storico inglese J. F. C. Fuller ha definito la Carta Atlantica “propaganda di prima classe, e probabilmente la più grande mistificazione della storia”. J. F. C. Fuller, A Military History of the Western World, Volume 3, New York, 1987, p. 453.
[12] Robert Conquest, The Great Terror: A Reassessment, Oxford University Press, 1990, p. 48. Vedi anche: N. Davies, op. cit., pp. 64-67.
[13] Pochi anni dopo la fine della guerra, l’ex presidente degli Stati Uniti Herbert Hoover ricordò la sua opinione critica della politica di aiuti all’Unione Sovietica da parte di Roosevelt: “Nel Giugno del 1941, quando l’Inghilterra era al sicuro dall’invasione tedesca a causa della decisione di Hitler di attaccare Stalin, feci presente che il più grande scherzo della storia sarebbe stato quello di fornire il nostro aiuto al governo sovietico. Feci presente che avremmo dovuto permettere a quei due dittatori di sfiancarsi l’un l’altro. Affermai che il risultato della nostra assistenza sarebbe stato quello di diffondere il comunismo in tutto il mondo…Le conseguenze hanno dimostrato che avevo ragione”. Citato da: Scott Horton, Saving England Wasn’t Worth It, Giugno 2007, http://www.antiwar.com/horton/?articleid=11213 .
[14] P. Fussell, op. cit., p. IX (Prefazione).
[15] Vedi, per esempio, Max Hasting, Bomber Command, New York, 1979; Giles McDonogh, After the Reich, 2007; N. Davies, pp. 67-72; Alfred M. de Zayas, The German Expellees: Victims in War and Peace, New York, 1993; Frederick J. P. Veale, Advance to Barbarism, IHR, 1993; Jörg Friedrich, The Fire: The Bombing of Germany, 1940-1945, Columbia University Press, 2006; Ralph F. Keeling, Gruesome Harvest, Chicago, 1947.
[16] Edgar L. Jones, "One War is Enough", in The Atlantic, Febbraio 1946, http://tmh.floonet.net/articles/nonatlserv.shtml . Citato anche in P. Fussell, Thank God for the Atom Bomb and Other Essays, New York, 1988, pp. 50-51.
[17] Lettera di Jackson a Truman del 12 Ottobre 1945. Citata in: Robert E. Conot, Justice at Nuremberg, New York, 1983, p. 68. Vedi anche: James McMillan, Five Men at Nuremberg, Londra, 1985, pp. 67, 173-174, 244-245, 380, 414-415.
[18] “The Nuremberg Judgement”, editoriale, in The Economist, Londra, 5 Ottobre 1946. Citato in: Mark Weber, The Nuremberg Trials and the Holocaust, disponibile in rete all’indirizzo: http://www.ihr.org/jhr/v12/v12p167_Webera.html
[19] Oltre all’Unione Sovietica e agli stati-fantoccio sotto il dominio coloniale inglese, tali paesi includevano la Cina, il Brasile, Cuba e l’Egitto.
[20] Martin Gilbert, Road to Victory, Winston Churchill 1941-1945, Volume VII, 1986, pp. 992-994. Fonte citata: W. Churchill, The Second World War, Volume 6, Londra, 1954, p. 198.
[21] Warren F. Kimball, The Juggler: Franklin Roosevelt as Wartime Statesman, Princeton University Press, 1991, p. 85 e p. 235 (nota 6). Fonte citata: Foreign Relations of the United States, 1942, volume III, pp. 573 e seguenti.
[22] H. Zinn, op. cit., New York, 2001, pp. 424-425.
[23] Nel suo discorso, diffuso a livello nazionale, del 29 Dicembre del 1940, il Presidente Roosevelt disse agli americani che “i padroni nazisti della Germania” stavano cercando di “schiavizzare l’intera Europa, e di usare poi le risorse dell’Europa per dominare il resto del mondo”. Nel suo discorso del 27 Maggio del 1941, Roosevelt disse che “i nazisti” cercavano “il dominio mondiale”. Il 25 Ottobre del 1941, il Vice-Segretario di Stato Adolph Berle disse agli americani che Hitler e i nazisti “hanno pianificato di conquistare il mondo intero”. Due giorni dopo, il Presidente rilasciò quella che è forse la sua dichiarazione più stravagante sui presunti piani nazisti per conquistare il mondo. Vedi: Mark Weber, "Roosevelt’s “Secret Map” Speech", in The Journal of Historical Review, primavera 1985, disponibile in rete all’indirizzo: http://www.ihr.org/jhr/v06/v06p125_Weber.html . Vedi anche: Thomas A. Bailey e P. Ryan, Hitler vs. Roosevelt, 1979, specialmente le pagine 199-203; Ted Morgan, FDR: A Biography, New York, 1985, pp. 602-603; “Dagli archivi tedeschi catturati [dagli americani] non vi sono prove a sostegno delle affermazioni del Presidente che Hitler avesse contemplato una qualche offensiva contro l’emisfero occidentale, e fino a quando l’America non entrò in guerra vi sono prove abbondanti che questa era una cosa che egli desiderava evitare”. J. F. C. Fuller, op. cit., p. 629.
[24] T. A. Bailey, The Man in the Street, 1948, pp. 11-13. Citato in: W. H. Chamberlin, America’s Second Crusade, p. 123. Vedi anche: Joseph P. Lash, Roosevelt and Churchill, 1939-1941, New York, 1976, pp. 9, 10, 420, 421.
[25] C. Tansill, Back Door to War, 1952, pp. 606-615; Joseph P. Lash, op. cit., pp. 298, 323, 340, 344, 418, 419, 421; T. A. Bailey e P. B. Ryan,op. cit., pp. 166, 265, 268; Ted Morgan, op. cit., pp. 589, 601; Frederic R. Sanborn, “Roosevelt is Frustrated in Europe”, in H. E. Barnes, editore, Perpetual War for Perpetual Peace, 1993, pp. 219-221; James McMillan, Five Men at Nuremberg, Londra, 1985, pp. 173-174; W. H. Chamberlin, op. cit., pp. 124-147.
[26] Allan Nevins, Henry Steele Commager, A Pocket History of the United States, New York, 1986, p. 433.
[27] J. F. C. Fuller, op. cit., p. 416.
[28] Robert E. Sherwood, Roosevelt and Hopkins: An Intimate History, New York, 1948, p. 380.
[29] Lewis H. Lapham, “America’s Foreign Policy: A Rake’s Progress”, in Harper’s, Marzo 1979. Citato in: Studs Terkel, op. cit, p. 8.
[30] B. M. Russett, op. cit., pp. 19, 20, 42.
[31] The Economist, Londra, 11 Agosto 1945. Citato in: J. F. C. Fuller, op. cit., p. 631.
[32] Basil Liddell Hart, op. cit., p. 3.
[33] W. Churchill, The Gathering Storm, Boston, 1948, pp. IV-V (Prefazione).
[34] H. P. Wilmott, The Great Crusade: A New Complete History of the Second World War, New York, 1990, pp. 102-103, 474, 476; vedi anche: F. P. Yockey, Imperium, Noontide Press, 2000.
[35] Charles A. Lindbergh, The Wartime Journals of Charles A. Lindbergh, New York, 1970, pp. XIV-XV; Donald Day, per anni corrispondente nell’Europa centrale per il Chicago Tribune, fu anche più netto nel considerare la vittoria degli Alleati come catastrofica per l’Europa e per l’Occidente. “Parlando come americano e come giornalista con 15 anni di esperienza, che sa qualcosa sia degli Stati Uniti che dell’Europa”, scriveva già nel 1943, “ritengo che un controllo e una gestione americana dell’Europa sarebbero distruttivi e rovinosi come il controllo sovietico. In entrambi i casi si tratterebbe di un controllo ebraico”. Donald Day, Onward Christian Soldiers, Noontide Press, 2002, p. 168.
[36] J. F. C. Fuller, op. cit., p. 631.
[37] Studs Terkel, op. cit., p. 193.
[38] Il Presidente Johnson paragonò ripetutamente la leadership nordvietnamita a Hitler per giustificare l’uso della potenza militare americana nell’Asia sud-orientale. In una conferenza-stampa del 28 Luglio del 1965, ad esempio, egli disse che “le lezioni della storia” mostravano che la “resa” in Vietnam non avrebbe portato la pace. “Abbiamo imparato da Hitler a Monaco”, disse, “che il successo stimola solo il desiderio di aggressione. La battaglia verrà rinnovata in un paese e poi in un altro ancora”.
[39] Murray N. Rothbard, “Harry Elmer Barnes, RIP”, in Left and Right, 1968, disponibile in rete all’indirizzo: http://www.lewrockwell.com/rothbard/rothbard165.html
[40] George W. Bush, Discorso Inaugurale, 20 Gennaio 2005, “Così la politica degli Stati Uniti è quella di cercare e di sostenere la crescita dei movimenti e delle istituzioni democratiche in ogni nazioni e in ogni cultura, con lo scopo supremo di porre fine alla tirannia nel mondo”.