Volare con El Al


LA MIA TRAGICOMICA ESPERIENZA DA MULATTA[1]

Di Emily Raboteau (2007)

Gli addetti alla sicurezza della compagnia aerea El Al piombarono su di me all’aeroporto internazionale di Newark come uno stormo di avvoltoi. Ce n’erano cinque, in uniforme, che bloccavano l’accesso dell’accettazione bagagli. Apparivano vecchi abbastanza da aver finito il servizio militare obbligatorio nell’esercito israeliano ma non abbastanza da aver finito il college, cosa che li poneva sotto di me per l’età. Ero preparata alla loro domanda iniziale, Cos’è lei?, che chiedeva conto della mia intera vita. Davvero, non c’è una risposta soddisfacente per quello che sono. “Mulatta” è oggi considerata una parola tabù poiché all’origine c’è la bestia a quattro zampe risultante dall’unione di un cavallo e di un asino (sebbene mi sia stato detto che i muli sono più intelligenti di entrambe queste varietà). “Mix” è un aggettivo più adatto ad un cocktail. “Interrazziale” è troppo vago, e “bi-razziale” è similmente impreciso. Per quanto mi irritasse, conoscevo la risposta preconfezionata considerata soddisfacente: “Appaio come sono perché mia madre è bianca e mio padre è nero”. Questa volta però la risposta usuale non era abbastanza. Questa volta l’interrogatorio fu spietato.
“Che significa nero? Da dove viene?”
“New Jersey.”
“Perché sta andando in Israele?”
“Per visitare un’amica.”
“Cos’è la sua amica?”
“E’ un Cancro.”
“Ha il cancro?”
“No, no. Sto scherzando. Sta bene.”
“E’ ebrea?”
“Sì.”
“Come la conosce?”
“Siamo cresciute assieme.”
“Lei parla ebraico?”
Shalom”, iniziai. “Barukh atah Adonai…” Non ricordavo il seguito, così terminai con una parola che ricordavo per la sua resa perfettamente onomatopeica del suono di un liquido versato dal collo stretto di un recipiente: “Bakbuk.” Significa bottiglia. Devo essere sembrata loro come un’idiota balbettante.
“E’ tutto quello che so”, dissi. In qualche modo mi vergognavo, ma ero anche incazzata con loro per avermi fatto sentire così.
“Di dov’è suo padre?”
“Mississippi.”
“No.” Ora erano esasperati. “Da dove viene la sua gente?”
“Stati Uniti.”
“Prima di quello. I suoi antenati. Da dove venivano?”
“Irlanda.”
Essi apparivano dubbiosi. “Che tipo di nome è questo?” Essi indicavano il mio passaporto aperto.
“Un soprannome”, scherzai.
“Come lo pronuncia?”
“Non me lo chieda. E’ francese.”
“Lei è francese?”
“No, gliel’ho detto. Sono americana.”
“Questo!” Essi indicavano il mio secondo nome, che è Ishem. “Qual è il significato di questo nome?””Non lo so”, risposi, onestamente non lo sapevo. Ho preso il mio nome dalla prozia di mio padre, Emily Ishem, che morì di cancro molto tempo prima della mia nascita. Non ho idea di dove venga quel nome. Forse è un nome da schiava.
“Sembra arabo.”
“Grazie.”
“Parla arabo?”
“Meglio non provare.”
“Che significa?”
“No, non parlo arabo.”
“Quali sono le sue origini?”
Mi sentii presa al cappio di uno di quei tormentoni di Gianni e Pinotto, “Chi è il primo?” Non c’era posto per me nei loro schemi. Non avevo il giusto vocabolario. Non avevo il giusto pedigree. Questo è quello che ha fatto di me la mia mescolanza razziale: una perpetua domanda senza risposta. Questo è quello che la tratta atlantica degli schiavi mi ha reso: una bastarda e una minaccia.
“Ms. Raboteau. Vuol prendere quell’aereo?”
Stavo iniziando a pensarci su.
“Vuole?”
“Sì.”
“Allora risponda alla domanda! Quali sono le sue origini?”
Cos’altro dovevo dire?
“Uno spermatozoo e un ovulo”, sbottai.
Fu allora che afferrarono il mio bagaglio, mi portarono nel seminterrato, mi tolsero i vestiti di dosso e tastarono ogni orifizio del mio corpo in cerca di esplosivi. Quando non ne trovarono, si concentrarono sul mio tatuaggio, un carattere giapponese che significa differente, prezioso, unico. Ero completamente nuda, e la stanza era fredda. I miei capezzoli erano duri. Cercavo di coprirmi con le mani. Mi era venuta una sete incredibile. Uno di loro percorreva la mia spalla sinistra con un guanto di lattice. “Cosa significa?” domandò. Questa era la prima volta che venivo catalogata razzialmente, per quanto l’esperienza non sarebbe stata in alcun modo meno umiliante se fosse stata la cinquecentesima. “Significa Fottiti”, volevo dire, non perché mi avevano spogliato della mia dignità ma perché avevano ficcato la mia faccia nel mio essere senza radici. Non mi ero mai sentita così nera nella mia vita come quando venni presa per un’araba.

[1] Traduzione di Andrea Carancini. Il testo originale può essere consultato all’indirizzo: http://www.transcript-review.org/sub.cfm?lan=en&id=4803