Omaggio a Gerd Honsik


Omaggio a Gerd Honsik, prigioniero politico a Vienna (Austria)

Di Isaac Schlingenstein[1]

Condannato nel 1992 nel suo Paese a diciotto mesi di prigione, l’austriaco Gerd Honsik si era esiliato in Spagna per sfuggire al carcere. Il 6 ottobre 2007, ossia quindici anni dopo, la giustizia spagnola ha risposto favorevolmente alla richiesta di estradizione depositata dall’Austria, e il fuggitivo si trova oggi in prigione a Vienna. Bisognava che la giustizia fosse messa da parte e che il revisionista espiasse il crimine assoluto di aver pubblicato un testo che mirava, sembra, a riabilitare, in un certo qual modo, Adolf Hitler. Si ha il diritto di trovare delle scusanti per Pol Pot, si può parlare bene di Stalin, ci si può mostrare indulgenti verso Fidel Castro, si possono chiudere gli occhi sulle abominazioni imputabili ai conquistadores delle Americhe, si possono giustificare sia la schiavitù nell’antichità che le odierne imprese belliche di George Bush, ma Hitler, figuriamoci! Mi accorgo che la maggior parte delle riflessioni contenute nel mio Progetto di Società per l’uomo universale (un progetto accompagnato da un impegno politico per una società più giusta e più fraterna) avevano un legame di parentela con il programma del Partito Nazionalsocialista dei lavoratori tedeschi che portò al potere Adolf Hitler. Il crollo del III Reich e la rabbia dei vincitori hanno per lungo tempo oscurato la sua eredità ma, mano a mano che gli occhi si aprono, appare sempre più chiaro che questo controverso regime ha avuto degli innegabili aspetti positivi. A questo proposito, mi ricordo dei miei incontri con Werner Naumann, divenuto dopo la guerra gentleman farmer [agricoltore gentiluomo] in Westfalia dopo essere stato giovane Segretario di Stato presso Goebbels, uno dei maestri della «comunicazione» nazionalsocialista. All’epoca di quegli incontri, ero ancora impregnato del pensiero unico secondo cui il nazismo rappresentava il male assoluto: i peggiori dittatori, i più abominevoli boia dei popoli non erano, paragonati ad Hitler, che dei chierichetti. I crimini più orribili mai commessi dagli uomini, inespiabili per sempre, erano e sono sempre imputati ad Hitler; li credevo reali poiché nulla di ciò che avevo sentito o letto allora mi sembrava smentirli. Per farla breve, seguivo l’opinione corrente. Certamente, mi era capitato di conoscere alcune situazioni o di intravedere certi elementi che talvolta mi turbavano e che avrebbero potuto scuotere le mie convinzioni, ma il mio spirito restava impregnato della versione unica della Storia. È nel quadro di certe ricerche universitarie che avevo fatto la conoscenza di Werner Naumann. Gentile e colto, l’uomo mi ascoltava con attenzione e pazienza. Non manifestava nessuna animosità a mio riguardo quando, con insistenza, gli dimostravo che i suoi compagni di potere avevano perpetrato il massacro più spaventoso della Storia, per così dire sotto i suoi occhi... ed egli non ne avrebbe saputo nulla! Al vertice dello Stato, collaboratore di Joseph Goebbels, il più fedele degli hitleriani, e collocato al centro delle notizie e delle decisioni, non avrebbe appreso nulla circa lo sterminio industriale di milioni di innocenti! Ad ogni nuova visita, nel bel mezzo dei colloqui sull’ecologia e sull’agricoltura biologica, riprendevo i miei ragionamenti davanti allo scettico che sapeva solamente dirmi: «Come può anche solo immaginare che noi, al Ministero della Propaganda, così vicini al Führer, non avremmo saputo di un avvenimento così importante che avrebbe dovuto mobilitare, da un’estremità all’altra della catena delle responsabilità, migliaia, centinaia di migliaia di persone»? Io riprendevo allora il mio ragionamento, martellandolo che si trattava di una verità evidente, dimostrata, indiscutibile, iscritta sul marmo della Storia. Un giorno, infine, gli venne un dubbio: «Voi ne siete così convinto - mi disse - tanto da mettere in dubbio le mie certezze: sarei forse vittima di un’amnesia folgorante»? Ma poi si ritrasse: «No, non è possibile. Sono in buona condizione fisica e in possesso delle mie facoltà intellettuali. Giacché, per alcuni anni, ho avuto la fortuna di rimanere nella clandestinità, non sono mai stato torturato dai vincitori. Quanto alla mia memoria, non mi ha mai abbandonato. Dunque...». In seguito, ho incontrato altri gerarchi del vilipeso regime in quanto ho dedicato tutta la mia carriera universitaria allo studio del III Reich. Ero rimasto traumatizzato dal fatto di non avere visto nulla, niente che lasciasse sospettare sulla realtà di questi orrori del regime nazionalsocialista e di ritrovarmi all’improvviso, dopo la sua caduta, davanti ad un campo di rovine e ad un tale ammasso di mostruosità. Avevo bisogno di comprendere come tutto ciò fosse stato possibile e come avevo potuto, sebbene adolescente, essere in qualche modo, per passività o per incoscienza, complice di tanti orrori. La mia tesi di laurea la dedicai al ruolo di Goethe nell’ideologia nazionalsocialista. Il poeta di Weimar era stato ampiamente utilizzato per la formazione dei giovani hitleriani e, al centro del mio studio, figurava l’opera scritta dal capo della Gioventù Hitleriana, Baldur von Schirach, intitolato Goethe an uns («Il messaggio che Goethe ci lascia»). Rileggo spesso questo scritto. La forma è un po’ invecchiata, ma il fondo mi sembra ancora vivo. Solo ora mi rendo conto che, nel mio Progetto di Società, stabilendo i principî di sostituire lo spirito di servizio a quello del profitto ed educare il riflesso altruistico, riprendevo inconsapevolmente il messaggio inviato alla Gioventù Hitleriana. Quest’ultima aveva il dovere di essere in ogni occasione esemplare, consacrata al bene pubblico e aperta alle altre culture. Oggi non approvo più i propositi eccessivamente nazionalisti che regnavano allora sia in Francia che in certi ambienti tedeschi con la stessa intensità. Non approvo più il culto del capo, ma devo ammettere che, all’epoca, è con convinzione che cantavo: «Maréchal nous voilà»! («Eccoci Maresciallo»!), e che, ogni mattina, nel mio giardino, facevo il saluto alla bandiera! Molti anni più tardi, la mia tesi di dottorato fu dedicata alle tre tragedie scritte da Rolf Hochhuth, un drammaturgo tedesco considerato all’epoca come la coscienza della Germania. Scoprendo per caso una sorta di confessione intitolata Rapporto Gerstein, ed ispirandosi ad essa, Rolf Hochhuth aveva scritto una pièce teatrale, Le Vicaire, in cui accusava Papa Pio XII di non avere alzato la sua voce per condannare il genocidio che sarebbe stato consumato sotto il suo pontificato. Si era elevato al rango, per così dire, di sceneggiatore di Auschwitz a partire da un documento dubbio che avrebbe a sua volta ispirato anche Costa Gavras per il suo film Amen. In effetti, il Rapporto Gerstein non aveva un grande valore di autenticità, ma l’idea non mi aveva toccato, ed ero ancora personalmente convinto della realtà dello sterminio ebraico. Narro questa avventura nel mio libro Conscience oblige («La coscienza obbliga»). Quindi, dedicai nuovamente alcuni anni ad un’opera universitaria, una tesi di dottorato di Stato su Arno Breker, che ci viene spesso presentato come «le scultore preferito di Hitler». Alcune circostanze fortuite mi avevano fatto incontrare questo personaggio, e il suo destino mi era sembrato degno di una ricerca approfondita sul problema della responsabilità dell’artista. Un capitolo di Conscience oblige tratta di questo incontro. Letture ed incontri non smettevano di mettermi a confronto con il più grande dramma della nostra epoca, quello della Seconda Guerra Mondiale. Tutte queste persone con cui mi intrattenevo erano state contemporanee del crimine e spesso ne erano stati gli attori più o meno diretti. Ora scoprivo in questi uomini degli esseri normali, equilibrati, piacevoli, intelligenti e spesso eruditi. Non eludevano le domande più scabrose riguardanti ciò che credevo che avrebbe potuto essere, in passato, la loro responsabilità criminale, la loro complicità o la loro vigliaccheria. La maggior parte di essi si mostrava gentile, piena di buona volontà, persino eloquente, e non manifestava la più piccola asprezza nei confronti dell’agitatore che si immaginava di girare il coltello nella piaga. Fu in me che iniziò a spuntare il dubbio. Il destino volle che un amico mi consegnasse, in maniera del tutto confidenziale, il libro di Wilhelm Stäglich, un magistrato tedesco, intitolata Il Mito di Auschwitz. L’opera venne messa al bando e mandata al macero. Tale era la sorte, come avrei appreso, di molti altri libri del medesimo carattere, e ciò in un Paese, la Germania, i cui responsabili politici ci descrivono volentieri come la nazione più libera che ci sia mai stata nella Storia. Lo lessi e la trasformazione si operò: smisi di credere, e con tale facilità che improvvisamente si cristallizzarono nel mio spirito innumerevoli elementi sparsi, riflessioni, dettagli, impressioni e scoperte che tendevano a contestare le pretese verità ufficiali inconfutabili. Recentemente, ho visto un documentario-fiction dedicato ai gerarchi nazionalsocialisti, giudicati a Norimberga, che uno psichiatra ebreo americano ha messo sotto il suo microscopio di entomologo per scoprire in ciascuno di essi ciò che aveva potuto farne un mostro. Alcuni documenti di archivio mostravano gli imputati, di cui nessuno, notiamolo, si dichiarò colpevole. E a ragione! Oggi, ogni storico onesto dovrebbe avere il coraggio di ammettere che, durante la Seconda Guerra Mondiale, i vinti non hanno commesso altri crimini che quelli che sono moneta corrente durante ogni guerra, perché la guerra stessa è solamente un crimine legale, e ogni soldato, così come affermò Hochhuth, è «un criminale professionista» (berufsverbrecher). Richiamando alla mente i miei incontri con Werner Naumann, non posso trattenermi dal pensare che se fosse anch’egli comparso al processo di Norimberga, avrebbe reagito allo stesso modo dei suoi co-accusati. Non avrebbe potuto confessare, poiché era, come essi, totalmente estraneo alle pretese atrocità di cui si sarebbe macchiata la Germania; tutt’al più si poteva rimproverare a questi uomini il genere d’azioni che commette ogni responsabile di un Paese in guerra quando è convinto di battersi per la propria sopravvivenza e per quella del suo popolo. Ogni belligeranza ha come scopo l’annientamento dell’avversario. Lo si fà con il rischio di provocare il più grande abbattimento nelle popolazioni coinvolte, e ciò per la più grande vergogna degli eredi dei Lumi, del pensiero cristiano e della filosofia umanistica. In fin dei conti, ai miei occhi, Georges Krassovsky è uno dei pochi uomini che abbiano saputo con un stupefacente perseveranza operare per tutta la propria vita per la pace. Intendo la vera pace e non la pace armata. Questa pace è l’unica e l’evidente sorgente del nostro benessere. Per lo sfrontato inquilino del pianeta blu resta l’unico pegno di sopravvivenza. Georges Krassovsky non aspira a nessun omaggio ma, per me, il suo nome cancella i nomi dei nostri pretesi eroi e conquistatori di tutti questi millenni di barbarie.

Isaac Schlingelstein
(Vaugran, 30480 Saint Paul la Coste), 1º marzo 2008

N.B.: candidato nel 2007 per il premio Nobel per la Pace, Georges Krassovsky ha dedicato tutta la sua vita alla difesa della pace. Percorrendo la terra, spesso in bicicletta, per portare in ogni luogo il messaggio dei «cittadini del mondo», egli ha notoriamente pubblicato due riviste: L’Esprit Libre («Lo spirito libero») e Le Nouvel Humanisme («Il nuovo umanesimo»). All’età di 92 anni, nel febbraio del 2008, ha passato la fiaccola a Jacques Vecker, fondatore del Centro Ecologico Europeo.
[1] Traduzione dal francese di Paolo Baroni.