Chi l'ha sparata più grossa?


COME FUGGIRE DA UNA CAMERA A GAS OMICIDA

Di Thomas Kues (2008)[1]

La maggior parte di noi conosce bene il particolare destino di Moshe Peer, il bambino che sopravvisse a sei gasazioni in una camera a gas di Belsen (come riferito dal giornale di Montreal The Gazette il 5 Agosto 1993) o di Arnold Friedman, l’uomo che sopravvisse alla camera a gas di Flossenburg (camera a gas parimenti ignota agli storici) respirando dal buco della serratura (vedi il libro Death Was Our Destiny, Vantage Books, 1972). Esiste tuttavia un’altra rara sottospecie di sopravvissuti alle camere a gas: si tratta di quei pochi fortunati che sono fuggiti da una camera a gas hitleriana prima o durante una gasazione. Questo articolo racconta brevemente le loro storie sorprendenti.

La prima degli artisti della fuga da una camera a gas a testimoniare la propria esperienza è stata Sophia Litwinska. Al processo di Belsen contro Josef Kramer, che era stato anche il comandante di Auschwitz, la signora Litwinska testimoniò:

“Alle cinque e mezzo circa della sera arrivarono dei camion e fummo caricati dentro di essi, praticamente nudi come animali, e fummo condotti al crematorio. (…) L’intero [carico del] camion venne rovesciato nello stesso modo in cui si fa talvolta con le patate o con i carichi di carbone, e fummo portati in una stanza che mi diede l’impressione di una doccia. C’erano asciugamani appesi in giro, e docce, e persino specchi. Non posso dire quante persone stavano nella stanza, perché ero così terrorizzata, e neppure sapevo se le porte erano chiuse. La gente era in lacrime; le persone gridavano l’una contro l’altra; e si colpivano fra di loro. C’erano persone sane, persone forti, persone deboli e persone malate, e improvvisamente vidi dei vapori provenire da una finestra molto piccola che stava in cima. Fui costretta a tossire molto violentemente, le lacrime uscivano dai miei occhi, ed ebbi una sorta di sensazione in gola come se venissi asfissiata. (…) In quel momento sentii chiamare il mio nome. Non avevo la forza di rispondere ma sollevai il braccio. Allora sentii qualcuno afferrarmi e gettarmi fuori della stanza. Hoessler mi mise addosso una coperta e mi portò su una motocicletta all’ospedale, dove rimasi sei settimane.”

Riguardo al modo curioso in cui le vittime venivano portate nella camera a gas, la Litwinska affermò in un precedente affidavit che lei e gli altri “passavano per uno scivolo giù attraverso qualche porta in una grande stanza”.

La testimone Regina Bialek raccontò un incidente assai simile in un affidavit preparato per lo stesso processo:

“C’erano sette camere a gas ad Auschwitz. Questa in particolare stava sottoterra e il camion poteva scendere lungo il pendio direttamente dentro la stanza. Qui venivamo rovesciati senza complimenti sul pavimento. La stanza misurava circa dodici iarde quadrate [poco più di dieci metri quadrati] e delle piccole luci sul muro la illuminavano debolmente. Quando la stanza fu piena si sentì provenire un suono sibilante dal punto centrale del pavimento e il gas entrò nella stanza. Dopo circa dieci minuti alcune delle vittime iniziarono a mordersi le mani e a schiumare dalla bocca, il sangue usciva dalle orecchie, dagli occhi e dalla bocca, e i loro visi diventarono blu. Mi trovavo in uno stato di semi-incoscienza quando il mio numero venne chiamato dal dottor Mengele e fui portata via dalla stanza”.

La testimone poi attribuisce la sua sbalorditiva sopravvivenza al fatto che, come prigioniera politica, “serviva più da viva che da morta”. Certamente, questo è il motivo per cui i guardiani si presero volentieri il rischio di entrare nella camera della morte mentre era in corso una gasazione.

La somiglianza sbalorditiva tra le testimonianze della Litwinska e della Bialek deve essere quella che Pressac ed altri chiamano una “convergenza di prove”!

Le fughe dalle camere a gas non hanno avuto luogo solo ad Auschwitz. Vi sono anche due casi conosciuti riferiti a Majdanek. Il primo riguarda Mietek Grocher, un ebreo polacco che dopo la guerra si stabilì in Svezia, dove passa ora la maggior parte del suo tempo da pensionato parlando ai bambini delle scuole sulla zuppa scipita con una rapa guasta gettatavi dentro e sui guardiani delle SS che facevano a pezzi i bebé. Secondo un’intervista al giornale locale svedese Östgöta-Correspondenten dell’8 Dicembre 2004, Grocher riuscì a fuggire da una camera a gas di Majdanek:

“Quando stavo lì capii quello che aspettava me e gli altri all’interno di quello spazio. Istintivamente incominciai a muovermi un po’ all’indietro, senza realmente pensare che stavo riuscendo a scappare. Per caso ci riuscii. Un ufficiale iniziò a parlare a un altro ufficiale e si mosse di pochi passi. In quel momento riuscii a scappare e a ricongiungermi con i miei genitori nel campo”.

Secondo un altro articolo su Grocher che apparve nel giornale locale Katrineholms-Kuriren il 15 Maggio del 1998, il guardiano scoprì il giovane Mietek che se la svignava e sparò tutti i sei colpi del suo revolver contro di lui, mancando il fuggitivo ma colpendo sei altri martiri di Majdanek. Tanto basti della precisione di tiro tedesca!

Il signor Grocher dice al reporter dell’Östgöta-Correspondenten riguardo alla sua impresa: “Direi che sono il solo che è riuscito a fare questo”. Ma, come sappiamo, vi sono altri che hanno avuto la stessa fortuna!

Il secondo caso di Majdanek riguarda una certa Mary Seidenwurm Wrzos. Alla fine della guerra, questa ebrea polacca, venne salvata e si ritrovò in Svezia. Lì ella lasciò la seguente testimonianza per un libro intitolato De dödsdömda vittnar [“Il condannato testimonia”, edito da Gunhild e Einard Tegen, Stoccolma, 1945]:

“Camminammo per tre chilometri dal campo di lavoro di Lublino al vero campo di concentramento [Majdanek], sorvegliati da uomini delle SS pesantemente armati. Venimmo portati in stanze sotterranee che erano lucidate in modo assai vistoso. Ognuno di noi ricevette un appendiabiti per riporvi le proprie cose. Le scarpe dovevano essere accuratamente legate insieme.”

“Andammo in una “sala docce” completamente nudi, portando solo un asciugamano e un pezzo di sapone. Immediatamente notai che le porte erano fatte di un ferro insolitamente spesso. Poiché non potevo andare avanti, accadde che fui l’ultima a entrare nella camera a gas. Guardai al soffitto. Oltre ai soliti spruzzatori delle docce, potei vedere tre grandi buchi neri. Ora sapevo dove mi trovavo! La pesante porta di ferro iniziò a chiudersi, ma lentamente, molto lentamente. E circa nello stesso tempo il gas iniziò a fluire dai tre grandi buchi neri!”

“Con una forza sovrumana iniziai a picchiare sulla porta, che non era ancora completamente chiusa. “Sono tedesca. Sono una poliziotta del campo, sono una guardiana dei trasporti”. Urlai queste parole più volte e nello stesso tempo colpivo la porta come una pazza. Iniziò ad aprirsi ma molto lentamente. Il sangue mi stava uscendo dalla fronte, dalle braccia, dalle ginocchia. Giacevo lì, con tutto il mio peso riversato contro la porta, in cerca d’aria, mentre essa si aprì lentamente davanti a me (mi sembrò un’eternità). Tutto il mio corpo era coperto di sudore freddo. Stavo iniziando a soffocare. Poi la porta si aprì. Degli uomini che indossavano maschere anti-gas mi spinsero fuori della stretta apertura. Ascoltai un paio di colpi sparati addosso alle donne che cercavano di passare dietro di me. Aria. Aria. Aria, finalmente. Ogni cosa gira vorticosamente. Poi persi conoscenza.”

“Quando mi svegliai la donna kapò ebrea-tedesca stava davanti a me. Mi aiutò ad alzarmi e a ricompormi (l’operazione prese meno di mezzo minuto). Quando mi guardai allo specchio il giorno dopo, vidi che avevo una striscia grigia di capelli sul lato sinistro”.

Sfortunatamente, oltre a non essere riuscita a indicare esattamente dove fosse ubicata questa camera a gas sotterranea, sconosciuta agli storici di Majdanek, la testimone non riesce a raccontarci quale fu la reazione delle SS quando scoprirono che non era una guardiana tedesca. A quanto pare né la fucilarono, né la inserirono nel gruppo della gasazione successiva!

Storie come quelle suddette hanno poca attinenza con la narrazione ordinaria delle camere a gas, e vengono citate raramente, se non ignorate del tutto, dagli “storici seri”. E’ tuttavia un fatto significativo e inquietante che persone come Mietek Grocher, David Faber o Misha Defonseca (“la ragazza dei lupi”) continuino ad arruffianarsi i bambini delle scuole e i media con i loro racconti bizzarri, lasciati completamente indisturbati e incontestati da storici e giornalisti. Qui non stiamo parlando di generici sopravvissuti di Auschwitz, che parlano ai bambini della persecuzione e delle miserie del campo - cose che senza dubbio hanno un fondamento nella realtà - e che fanno qualche riferimento ai camini fiammeggianti e a Mengele per buona misura. A tali persone può essere concesso il beneficio del dubbio e si può ritenere che credano sinceramente nell’esistenza delle camere a gas in base alle dicerie e alle voci del campo. Grocher e i suoi consimili tuttavia sembrano essere degli esperti mentitori, anche se rimane la possibilità che costoro abbiano finito col credere alle proprie menzogne.

Il silenzio degli storici, la loro riluttanza a smascherare le imposture, è naturalmente facile da capire. Se avessero denunciato apertamente questi patenti impostori, rischierebbero di risvegliare l’attitudine critica dell’opinione pubblica, la cui attenzione si rivolgerebbe alla veracità delle testimonianze lasciate dai testimoni-chiave delle camere a gas omicide. A quel punto, i nostri storici dovrebbero affrontare un gran numero di questioni scomode.


[1] Traduzione di Andrea Carancini. Il testo originale è disponibile all’indirizzo: http://www.codoh.com/newrevoices/nrtkescape.html